Secondo una stima della CGIA Mestre “sono oltre 15.000 le imprese italiane che dall’inizio della crisi alla fine del 2012 sono fallite a causa dei ritardi dei pagamenti”. Il comunicato che annuncia la “stima”, poi rilanciata dai maggiori mezzi di informazione nazionali, non è accompagnato da nessuna nota metodologica. E le richieste di chiarimento di Link Tank sulla metodologia utilizzata sono state rinviate al comunicato stesso. Vediamolo meglio, allora.
CGIA Mestre riporta che, secondo un’indagine Intrum Justitia, “il 25% delle imprese fallite in Europa chiude a causa dei ritardi dei pagamenti”. Tenendo conto che l’Italia è maglia nera nel ritardo dei pagamenti, “la CGIA stima che tra il 2008 e il 2010 questa incidenza abbia raggiunto la soglia del 30% per salire al 31% nel biennio 2011-12”. Una volta trovata la percentuale, CGIA Mestre la applica ai dati Cribis sul numero di fallimenti in Italia dal 2008 al 2012. Il gioco è fatto.
Il primo dubbio sorge dal fatto che quel 25%, par di capire, proviene dalle risposte di imprese intervistate da Intrum Justitia in 29 paesi europei (più Turchia e Russia). Le informazioni sulla rappresentatività del campione e sui tassi di risposta in ogni paese sono alquanto parche. Ma anche prendendo il sondaggio per rappresentativo, resta il fatto che la definizione di “fallimento a causa dei ritardi dei pagamenti” è affidata alla soggettiva interpretazione degli intervistati (auto-selezionati). Se per esempio esistesse una variabile omessa del tipo “trovare un colpevole a tutti i costi”, il dato sarebbe chiaramente sovrastimato (in modo diverso in paesi dove questa variabile incide diversamente).
Ma tralasciamo anche questo dettaglio. E prendiamo la media europea del 25% per buona. Perché mai per l’Italia dovrebbe tradursi in 30% e 31% piuttosto che 28% o – perché no – 45%? Mistero. Senza contare che il rapporto Intrum Justitia, pur segnalando che le imprese italiane denunciano i ritardi più lunghi nei pagamenti della pubblica amministrazione, colloca il nostro paese appena al di sotto della soglia d’emergenza per l’indice sul rischio pagamenti (a differenza di Spagna, Portogallo, Grecia, Slovenia, Croazia, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Bulgaria: tutti paesi che contribuiscono al fatidico 25% di cui sopra). Sempre leggendo il rapporto, inoltre, sembra che gran parte dell’aumento nei ritardi sia imputabile ai pagamenti commerciali in un momento di pesante recessione.
Per carità: il problema dei ritardi nei pagamenti (a partire da quelli della pubblica amministrazione) è senz’altro pressante nel nostro paese. E le raccomandazioni di policy rilanciate da CGIA Mestre sono di assoluto buon senso. Ma serve davvero qualche numero in libertà per sensibilizzare politica e opinione pubblica su questo problema? Anche assumendo che la forzatura statistica sia animata dalle migliori intenzioni, si rischia che i numeri finiscano per perdere senso, restando preda di chi ha interesse a strumentalizzarli o l’audacia di snocciolarli a getto continuo.
Se davvero giornali e televisioni hanno a cuore un problema, piuttosto che rilanciare numeri a caso, s’impegnino a denunciare l’assoluta mancanza di trasparenza e attenzione alla raccolta dati nel nostro paese. La penuria di numeri non si risolve inventandoli, ma facendo pressione affinché vengano prodotti e trattati in maniera credibile. I ritardi nei pagamenti, forse, uccidono le nostre imprese. I ritardi nella credibilità dei dati, di sicuro, uccidono il nostro dibattito pubblico.
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