Lo studio presentato da Andrea Ichino è molto utile per chi disegna politiche pubbliche, prima di tutto perché è un’analisi di equilibrio generale che cerca di uscire da una certa tendenza, che sta tornando di moda in Italia, secondo la quale le questioni salariali possono essere viste come una “variabile indipendente” rispetto alle dinamiche produttive e del mercato del lavoro. Al contrario, e giustamente, lo studio si sforza di mostrare come tutto ciò che attiene alla contrattazione collettiva e alle dinamiche salariali ha un impatto su altri mercati, sulle scelte di produzione, di consumo e di mobilità, producendo effetti sui salari reali che possono essere tanto inattesi quanto eterogeni.
Sono stati presentati dati molto interessanti, ma vorrei partire dalle critiche mosse da Pasquale Tridico, che sono sostanzialmente due. Prima: i dati sono incompleti, perché i salari già adesso sono più bassi al Sud che al Nord, per via del lavoro sommerso, del lavoro parasubordinato o dei contratti pirati. Seconda: sarebbe sbagliato permettere salari più bassi al Sud perché questo finirebbe per avere effetti perversi da un punto di vista degli investimenti in innovazione e capitale umano. Ma delle due l’una: o è vera la prima critica, o la seconda. Entrambe mal si conciliano tra loro.
Dal mio punto di vista, questa diatriba dovrebbe essere sciolta così. È vero, come sostiene Tridico, che lo studio non coglie (e non può farlo con i dati ufficiali a disposizione) una flessibilità “irregolare” che nel settore privato rende i salari più bassi al Sud nonostante i contratti collettivi nazionali fissino salari nominali uguali su tutto il territorio nazionale. Ma proprio per questo, come sostiene Ichino, c’è bisogno di una flessibilità “contrattuale” che permetta di riassorbire l’area grigia dell’irregolarità senza impatti negativi sui salari reali, la mobilità tra pubblico e privato e quella tra regioni del Paese. Perché contratti nazionali troppo rigidi e uniformi finiscono per incentivare forme di evasione o elusione della normativa sul lavoro subordinato e delle tutele fissate dalla contrattazione collettiva. Per chi critica le gabbie salariali o i divari tra Nord e Sud, questo dovrebbe essere il vero campanello d’allarme per fare proprie alcune delle raccomandazioni di policydello studio di Boeri, Ichino, Moretti e Posch: i veri difensori della contrattazione collettiva dovrebbero dirsi a favore di una contrattazione decentrata, di una flessibilità territoriale in cui le parti sociali si riapproprino di valvole di maggiore differenziazione salariale, che avvengano non nell’irregolarità ma all’interno di una contrattazione virtuosa tra le parti.
Ma perché non si attua questa contrattazione territoriale di cui si parla da anni? I governi di cui ho fatto parte hanno provato a intervenire sul piano della “carota”, per così dire, piuttosto che su quello del “bastone”. Abbiamo reso strutturali e sistematizzato gli incentivi alla contrattazione aziendale e territoriale, introducendone alcuni strumenti – anche innovativi – sia dal lato del welfare aziendale, sia da quello della partecipazione agli utili d’impresa. Innovando gli strumenti e rendendoli strutturali si è provato a incentivare la contrattazione aziendale e territoriale. Ovviamente, partendo da un equilibrio in cui la contrattazione decentrata è ancora poco diffusa – quella aziendale raggiunge solo il 20% – ci vuole tempo per spostare i vincoli della contrattazione nazionale e creare un nuovo equilibrio in cui si possa inserire la contrattazione decentrata. Ma forse non si sono visti i risultati dei provvedimenti presi perché la “carota” non era sufficiente, serviva anche il “bastone” di regole nuove fissate per legge. Di questo “bastone” in verità si discusse nel 2016 in un disegno di legge già pronto in cui per incentivare la contrattazione decentrata si inserivano “clausole di uscita” anche su alcune componenti accessorie dei trattamenti salariali. Dopodiché, il quadro politico del 2016 non era proprio quello ideale per introdurre innovazioni coraggiose, su questo o su altri fronti.
In questa sede, però, mi interessa sottolineare due punti importanti contenuti in quel disegno di legge: non si prevedevano solo clausole di uscita, ma si rendevano esigibili i contratti aziendali e territoriali, fissando i criteri di rappresentatività e introducendo istituti di pace sindacale, fissando cioè per legge le regole contenute negli accordi interconfederali sul tema. Il tema della misurazione della rappresentanza e dell’esigibilità dei contratti c’è a livello nazionale ma anche a livello aziendale (anche se non per la parte datoriale), come è evidente per le clausole di raffreddamento, la suddivisione delle responsabilità e i dubbi su come comportarsi nel caso in cui una parte minoritaria non rispetti il contratto firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi. Quindi l’innovazione normativa non consisteva soltanto in clausole di derogabilità della contrattazione nazionale rispetto ad alcuni elementi, ma era costituita anche da una cornice di regole che fissassero l’esigibilità dei contratti aziendali e territoriali. Senza questa cornice di regole certe, infatti, è difficile far sviluppare questi strumenti perché, soprattutto in certi tessuti produttivi o in certe aziende, si ha timore a utilizzarli.
Il secondo (e ultimo) punto riguarda la domanda che poneva Andrea Ichino: perché i sindacati sono contrari a questi cambiamenti, a istituti che rafforzino il decentramento pur in una cornice che faccia perno sulla contrattazione collettiva? Può darsi che parte della risposta a questa domanda riguardi l’esistenza di rendite legate a una struttura organizzativa che è a sua volta connessa a un modello di contrattazione fortemente nazionale. Tuttavia, può anche darsi che spaventi l’idea di spostare la contrattazione, senza regole, da luoghi in cui c’è una simmetria di potere ormai bilanciata grazie a un sistema di relazioni industriali collaudato per avventurarsi in un terreno dove la controparte che rappresenta i lavoratori finirebbe per essere più debole. In alcuni territori è difficile anche l’esigibilità delle regole fissate per legge e può verificarsi un’asimmetria di potere che rende i lavoratori più deboli, finendo per slegare il salario dalla produttività, finendo per ridurlo semplicemente.
Se vogliamo superare i blocchi, sia delle rendite relative alle organizzazioni sindacali – legate a un modello in parte anch’esso da superare – sia del legittimo timore di avventurarsi in un territorio che riduce il potere contrattuale di chi rappresenta i lavoratori, dobbiamo tener presenti tre elementi. Il primo è la ricerca di un modello che faccia leva su esempi virtuosi di contrattazione territoriale, più che solamente aziendale. Ovvero, come viene suggerito nello studio che stiamo discutendo, un modello in cui lo schema settoriale venga superato senza impuntarsi solo sulla contrattazione aziendale, che non tutto il tessuto italiano è pronto ad assorbire, ma mettendo molta più enfasi che in passato sulla contrattazione territoriale. Il secondo elemento riguarda una lotta ferma e senza quartiere a ogni forma di irregolarità, di evasione o elusione delle norme fissate dalla legge e dai contratti. Infine, il terzo elemento riguarda la modernizzazione delle strutture organizzative e dei modelli con cui si fa sindacato. Da un punto di vista politico, questo blocco delle organizzazioni sindacali rispetto alla contrattazione decentrata verrà superato se avrà successo una battaglia, di nuovo attuale, per l’unità sindacale. Perché un sindacato che accetta la sfida dell’unità sindacale è un sindacato che accetta la sfida di ripensare la propria funzione e la propria organizzazione su come si fa sindacato nel XXI secolo e, se scatta questa dinamica, sarà più facile per il legislatore e per la politica spingere il sistema di relazioni industriali verso maggiori elementi di flessibilità contrattuale e decentrata senza mettere a repentaglio, anzi rafforzando, la forza contrattuale dei lavoratori. Chi ha a cuore questi temi, oltre che fare buone analisi e scrivere leggi utili, deve essere attento a cosa accade nelle organizzazioni sindacali rispetto al tema dell’unità, rispetto a dinamiche che avranno un forte impatto sul nostro sistema di relazioni industriali, traghettandolo – mi auguro – verso il secolo che stiamo vivendo.