Il Riformista

Salario minimo va disegnato bene e con obiettivi chiari: siamo noi a non aprire gli occhi sugli “invisibili”

Tommaso Nannicini
Lavoro/#lavoro#salari

“Walter, perché ogni cosa con te diventa grottesca?” si chiede Jeff Lebowski, The Dude, in una delle scene finali del monumentale film dei fratelli Coen. Questa frase risuona spesso quando si guarda a certe proposte della politica italiana. Dove anche idee valide, dal reddito di ultima istanza al salario minimo, finiscono fatalmente in un frullatore di obiettivi confusi e strumenti mal disegnati.
Premessa: chi scrive pensa che sia giusto introdurre un salario minimo. Tra parentesi: era una delle proposte del programma del Pd nel 2018 (e no, non l’abbiamo fatto prima, forse sbagliando, per non interferire con l’evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali che stava ruotando intorno al “Patto per la Fabbrica”; e no, non l’abbiamo fatto dopo, perché hanno vinto i populisti). Ricordo ancora che cosa scriveva allora il Manifesto: “Salario minimo a dieci euro. Il Pd fa felice Marchionne. Renzi e Nannicini vogliono rottamare il contratto nazionale”. Come si cambia.

Detto questo, se è disegnato male attribuendogli obiettivi impropri, il salario minimo può far danni. In politica, chi lo propone cita quattro obiettivi molto diversi tra loro come il contrasto ai fenomeni di: stagnazione salariale; disuguaglianze sociali; lavoro povero; sfruttamento.
Procediamo con ordine. Combattere la stagnazione salariale è proprio il compito che non vuoi dare al salario minimo, che è utile contro i “salari bassi” (quelli nella parte bassa della distribuzione) ma non sul tema dei “bassi salari” (il fatto che gli italiani, in qualsiasi punto della distribuzione si trovino, sono pagati poco rispetto a paesi con un’economia simile alla nostra). Per combattere la stagnazione salariale servono politiche industriali, formazione permanente, ammortizzatori sociali legati ai percorsi lavorativi, sindacati più forti e una contrattazione collettiva più estesa e stringente. Il salario minimo non può far niente. Anzi, se viene introdotto con cifre che devono far credere agli elettori che tutti i salari saliranno, può far danni. È proprio per questo che il salario minimo fa paura, in Italia, a chi teme che il suo ammontare sarà affidato ai proclami dei politici a “Porta a Porta” e non alle analisi di una commissione di esperti e rappresentanti delle parti sociali, come avviene nel resto del mondo. L’evidenza empirica internazionale mostra che non ci sono effetti negativi di aumenti del salario minimo sull’occupazione, ma questi studi si basano su politiche serie con cifre al di sotto del sessanta percento del salario mediano, non su politiche raffazzonate. Il diavolo, purtroppo, sta nei dettagli.

Lo stesso vale per le diseguaglianze sociali, contro cui il salario minimo può poco, se non molto indirettamente. Qui serve un nuovo welfare, con un tempo di base, un reddito di formazione, politiche che riscrivano il contratto sociale tra generi e generazioni, servizi pubblici di qualità che contrastino le ingiustizie prima di arrivare alle disuguaglianze nel reddito. Ma anche qui la nostra credibilità, quando citiamo come priorità la scuola e la sanità pubblica, è vicina allo zero. Perché poi dietro a queste priorità da convegno ci stanno bandi che sfruttano il terzo settore come agenzia interinale a basso costo del settore pubblico. Meno proclami, più risorse: di questo hanno bisogno i servizi pubblici per combattere le diseguaglianze sociali. Così come hanno bisogno di una qualità omogenea su tutto il territorio nazionale. Altro che Titolo V e autonomia rafforzata: i diritti alla salute, al lavoro e alla formazione non possono cambiare quando passi il confine da una regione all’altra.

Veniamo così al terzo obiettivo: il contrasto al lavoro povero. Qui è dove il salario minimo può davvero svolgere una funzione positiva, a patto che sia fatto bene: con una cifra ragionevole tarata sulla parte bassa della distribuzione dei salari, magari partendo in via sperimentale da alcuni settori fragili, e rafforzando la contrattazione collettiva. Il salario minimo, infatti, è solo uno degli strumenti contro la povertà lavorativa, insieme all’estensione erga omnes dei contratti nazionali, al sostegno al reddito anche quando si lavora (in-work benefits), alle ispezioni contro il mancato rispetto di leggi e contratti. Deve essere chiaro, infine, che la lotta allo sfruttamento – il quarto obiettivo – è tutt’altra cosa. Checché ne dicano certi cartelli esibiti in Parlamento, qui il salario minimo c’entra poco.

Lo sfruttamento lavorativo non ha solo il volto dei rider che sfrecciano nelle Ztl. A pochi chilometri da quelle Ztl, o nel lavoro notturno che non vediamo quando dormiamo, ci sono filiere produttive basate sullo sfruttamento e in alcuni casi sulla schiavitù di chi lavora. Li chiamiamo “invisibili”, ma non sono loro a esserlo, siamo noi a essere ciechi. (Anche quando attivisti, organizzatori di comunità, studiosi come Marco Omizzolo ci ricordano col loro coraggio quale sia il vero volto dello sfruttamento, che altro non è che uno dei tanti volti della criminalità organizzata.) Schiavitù, caporalato, sfruttamento lavorativo sono già reati nel nostro ordinamento, ma chi è debole e senza alternative non ha la forza di denunciare questi reati. Qui il salario minimo legale può poco, perché la legalità non esiste. Serve offrire un’alternativa alle lavoratrici e ai lavoratori sfruttati, italiani o stranieri che siano, con o senza permesso di soggiorno che siano, dando loro la possibilità di denunciare i propri aguzzini, ricevendo in cambio – per almeno due anni – protezione, alloggio, un reddito forte e percorsi di reinserimento lavorativo e sociale gestiti dal terzo settore. Questo serve. E serve ora.

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