Linkiesta

Se anche Krugman dà i numeri

Tommaso Nannicini
Economia

Secondo Paul Krugman, un “attento studio statistico”, basato in primo luogo sui lavori di Emmanuel Saez (Berkeley) e Thomas Piketty (Paris School of Economics), dimostra che l’aliquota fiscale ottimale per i ricconi in cima alla distribuzione dei redditi è intorno al 73 per cento. Punto.

Curiosa questa passione per un numero secco, da parte di chi ha sbugiardato ripetutamente Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff (entrambi ad Harvard) per la famosa soglia del 90 per cento, oltre la quale il debito pubblico si trasformerebbe in un ostacolo per la crescita. Mi è già capitato di argomentarela scarsa fondatezza del numero 90. Mi ripeto con il 73.

Saez e Piketty, al parti di Reinhart e Rogoff, appartengono all’élite dei migliori economisti a livello internazionale. E hanno raccolto dati impressionanti sulla distribuzione dei redditi in molti paesi, confrontando l’andamento della tassazione per classi di reddito nel tempo. Dai loro dati storici, così come da quelli di Reinhart e Rogoff, s’imparano un sacco di cose. I loro studi sono di grande interesse scientifico. Tra le tante evidenze descrittive, si scopre che la tassazione sui redditi elevati è stata per decenni più alta negli Stati Uniti e in Giappone rispetto all’Europa. E che gli andamenti (nel tempo e nello spazio) e gli effetti di tasse elevate sui ricconi in fasi diverse dello sviluppo economico sono pieni di sfaccettature diverse. Ma da qui a dire che ci sia evidenza robusta a favore di un’aliquota ottimale al 73 per cento (sempre e ovunque), ce ne corre.

Intendiamoci: la riflessione di Krugman sui limiti della meritocrazia (in contesti dove le condizioni di partenza sono tutt’altro che eque) sono condivisibili. Ma perché spacciare una proposta (e un numero) per il Santo Graal della riforma del fisco? L’aliquota del 73, al pari della soglia del 90, non è un risultato incontrovertibile sul piano scientifico. Ci risiamo. Gli economisti che partecipano al dibattito pubblico, pur di far passare le loro preferenze politiche, sbandierano risultati che non esiterebbero a maltrattare se qualche studente di dottorato glieli presentasse in un seminario. Forse, è un problema tecnologico. Piuttosto che con il pc o con il tablet, gli interventi su un blog o gli articoli sul New York Times andrebbero scritti con la matita blu.

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