Tempo. È il grande assente nel dibattito politico sulle questioni di genere in Italia. Ma se vogliamo che l’8 marzo non si esaurisca con le mimose, dovremmo parlare di più del tempo: del potere di chi lo controlla rispetto a chi ne è prigioniero. In questi giorni, si è discusso molto dei divari tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Si è parlato del fatto che le donne lavorano di meno, con un tasso di occupazione del 54% contro il 72% degli uomini. Che, se lavorano, hanno una retribuzione più bassa, a causa di un maggior ricorso al part-time, di qualifiche inferiori e un uso minore degli straordinari. E che sono solo il 21% dei dirigenti, nonostante abbiano superato gli uomini tra chi si laurea.
Si è parlato meno, però, del padre di tutte le disuguaglianze: l’uso del tempo. “L’unica cosa che ci appartiene è il tempo”, diceva Seneca. E invece no. Appartiene solo a chi ha potere, a chi può usarlo. Per alcuni, il tempo è libertà. Solo chi ce l’ha può investire sui propri progetti, perché può aspettare che si realizzino. Per altre, invece, il tempo è una sfida quotidiana. Lo è per chi si prende cura di una persona non autosufficiente, con ore che non bastano mai a tenere insieme amore, vita e lavoro in un equilibrio sfuggente, sempre in affanno. Lo è per chi deve rinunciare a inseguire i propri sogni e accettare un lavoro purchessia, perché non può permettersi il lusso di aspettare.
Non è un caso se gran parte dei divari di genere elencati sopra sono innescati dall’arrivo di un figlio. Ogni anno, una donna che lavora e ha figli dedica 64 giorni in più alla cura della famiglia di un uomo nelle stesse condizioni. Due mesi in cui l’uomo in questione può leggere, bere una birra con gli amici, giocare a calcetto col capo da cui dipende la sua promozione, fare straordinari: in una parola, essere padrone del suo tempo. Un divario così sfacciato è accettato solo perché la nostra cultura collettiva si fonda sull’equazione “donna uguale cura”. Un’equazione tanto sbagliata quanto dura da estirpare. Un’equazione che travalica ogni confine, come quello tra lavoro autonomo e subordinato. Secondo un’indagine dell’Osservatorio delle Libere Professioni, dopo l’arrivo di un figlio, il 68% dei lavoratori autonomi dichiara che la propria attività non è cambiata, contro il 37% delle lavoratrici autonome (un terzo delle quali si è vista costretta a ridurre gli orari di lavoro o svolgere le stesse attività in meno tempo).
Tra i giovani, carriera, genitorialità e realizzazione sono meno schiacciate da schemi di genere e di tempo così soffocanti. Ma quegli schemi restano ossificati nelle strutture di welfare e nell’organizzazione del lavoro nate nel secolo scorso. Se vogliamo abbattere i divari di genere e ampliare la libertà di tutte e di tutti, dobbiamo scardinarli. Gli investimenti in asili e la trasparenza sui divari retributivi nelle aziende sono misure utili, ma non colpiscono il cuore del problema.
Che fare, allora? Invece di chiedere sempre alle donne di risolvere le cose, dovremmo essere noi, collettivamente, a cambiare. Servono politiche che redistribuiscano il tempo di cura tra uomini e donne, a partire da congedi obbligatori di genitorialità generosi e paritari: cinque mesi per le madri (come avviene oggi) e cinque mesi per i padri (al posto dei dieci giorni attuali), con le stesse sanzioni in caso di mancato utilizzo, la stessa copertura retributiva al 100% e l’impossibilità di trasferirli da un genitore all’altro. Quando una giovane e un giovane sostengono un colloquio di lavoro, a nessuno deve passare per la mente che, a parità di competenze, potrebbe perdere la prima per un certo numero di mesi, ma non il secondo. In aggiunta, servono congedi parentali facoltativi, anch’essi paritari e ben retribuiti. Serve un part-time di coppia, incentivato sia per le imprese sia per chi lavora, a patto che venga utilizzato da entrambi i genitori. Serve un sostegno maggiore per le famiglie monogenitoriali e omogenitoriali. E serve una diversa organizzazione del lavoro che liberi il tempo delle persone. Per dirla con la Nobel per l’economia Claudia Goldin, la “grande convergenza” tra uomini e donne vivrà il suo capitolo finale quando i datori di lavoro smetteranno di remunerare in modo sproporzionato chi lavora tante ore, in certe fasce orarie e con disponibilità senza limiti. Il tempo deve essere valutato (e bilanciato) diversamente per tutte e per tutti.
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