Secondo un articolo della versione online del Corriere della Sera, a firma di Antonio Castaldo, pagare di più i politici ne diminuirebbe qualità e impegno. La prova verrebbe da un recente studiodi Alessandro Fedele e Pierpaolo Giannoccolo. Secondo l’articolo, salari alti come quelli dei parlamentari italiani
«inducono alla candidatura persone con alte capacità, ma con un approccio poco pubblico alla politica, un modo di fare tipico di chi ha maturato esperienze nel settore privato».
Senza niente togliere allo studio citato, è davvero questa la conclusione prevalente nei lavori sull’argomento? Non proprio. Sparare sulla croce rossa – una classe politica come quella italiana che, ne conveniamo, non brilla certo per qualità – è uno sport che piace molto ai giornali, ma si può fare tranquillamente basandosi sulla cronaca, senza bisogno di stiracchiare i risultati della letteratura scientifica, che al momento vanno in altra direzione.
Tanto per cominciare, il paper di Fedele e Giannoccolo è prevalentemente teorico: si fanno delle assunzioni e, sulla base di un modello matematico, si traggono delle implicazioni. La loro intuizione viene discussa da tempo: in punta di teoria, se le motivazioni «intrinseche» dei politici (come la voglia di operare per il bene comune) sono prevalenti, aumentare il loro salario può diminuirne il livello. Tuttavia, facendo assunzioni diverse, come quella che l’abilità nel privato sia collegata a quella necessaria per le cariche elettive (perché se si è svegli nel proprio lavoro, lo si è anche quando ci si occupa della cosa pubblica), si raggiungono risultati opposti. Alla fine, solo l’analisi empirica può dirci quale sia la spiegazione prevalente.
Cosa trova, allora, la letteratura scientifica? Al momento, gli unici studi che presentano qualche evidenza che possa ambire a definirsi «causale» (pur con tutti i limiti della ricerca empirica) sono l’analisi di Claudio Ferraz e Frederico Finan sui politici locali in Brasile e la nostra analisi sui sindaci in Italia. Entrambi gli studi sono usciti nel 2008, ma – visti i tempi delle pubblicazioni scientifiche – il primo è ancora sotto revisione in una delle maggiori riviste internazionali («Econometrica») mentre il secondo è stato pubblicato sul «Journal of the European Economic Association» (dopo che è stato pubblicato, il Financial Times ne ha dato un resoconto divulgativo). Questo solo per dire che entrambi gli studi circolano da un po’ e sono già stati sottoposti al vaglio della comunità scientifica.
Sia lo studio di Ferraz e Finan sia il nostro usano «variazioni» discontinue a certe classi di abitanti nello stipendio dei consiglieri comunali (Brasile) o dei sindaci (Italia), in modo da confrontare comuni omogenei che pagano i politici in maniera diversa. I risultati sono sorprendentemente simili, data la diversità dei due paesi. Primo. Uno stipendio più alto porta a candidarsi individui con una maggiore istruzione e con professioni legate a redditi più alti (avvocati, professionisti, etc.). Secondo. Uno stipendio più alto aumenta l’impegno dei consiglieri comunali in Brasile (che presentano più proposte legislative e fanno meno assenze), migliorando la qualità dei servizi pubblici a livello locale. Nei piccoli comuni italiani, sindaci selezionati con uno stipendio più alto riducono il bilancio pubblico e aumentano la velocità nei pagamenti del comune (di questi tempi, non proprio un dettaglio).
Per carità, né lo studio brasiliano né il nostro suggeriscono che sia sempre un bene pagare di più i politici. I risultati sono validi soltanto in un contesto come quello dei comuni, dove il controllo degli elettori sugli eletti è forte (soprattutto in Italia a seguito dell’elezione diretta dei sindaci introdotta nel 1993). Probabilmente, pagare ancora di più parlamentari nazionali eletti (o «nominati») attraverso liste bloccate produrrebbe effetti perversi. Ma su questo non c’è evidenza statisticamente robusta per ora.
Che dire, invece, dei confronti ripresi dal Corriere tra lo stipendio dei parlamentari e il loro «spirito pubblico» in nazioni diverse? Come riconoscono Fedele e Giannoccolo, è impossibile trarre implicazioni «causali» da questi dati (troppe cose cambiano da una nazione all’altra). Peccato che il Corriere non abbia ritenuto utile far conoscere questo «disclaimer» ai propri lettori. E peccato che il Corriere non abbia prestato attenzione alla misura di «spirito pubblico» dei politici usata nello studio citato: il fatto, cioè, che in passato abbiano ricoperto incarichi di partito senza mai essere eletti in qualche comune, provincia o regione. Altrimenti, sulla base della figura riportata, avrebbe dovuto concludere che per migliorare la nostra classe politica dovremmo mandare in Parlamento più funzionari di partito senza nessuna esperienza amministrativa. Argomento un po’ meno sexy su cui fare un titolo in prima pagina.
Per carità, gli articoli di giornale non possono addentrarsi in troppe sottigliezze, ma quando si rilanciano risultati scientifici lo si dovrebbe fare sulla base di un’analisi attenta. Molti giornali internazionali assumono proprio persone con dottorati in economia o altre materie per occuparsi di divulgazione scientifica. Lamentarsi della qualità della classe politica italiana è legittimo. Nel frattempo, far di tutto per migliorare anche quella dei giornali aiuterebbe.
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