Il 2025 della geopolitica inizierà ufficialmente il 20 gennaio, con il giuramento di Donald Trump come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. E l’attesa, probabilmente, è più carica d’angoscia in Ucraina che in Groenlandia. Tra i fattori che alimentano l’incertezza, spicca lo scontro tra personalità e gruppi che appoggiano Trump pur avendo posizioni molto diverse. Prevarrà il tecno-efficientismo libertario di Elon Musk, che punta a colonizzare Marte, o lo statalismo isolazionista di J.D. Vance, che vuole reindustrializzare le aree interne degli Stati Uniti? Lo scontro è già rovente, per esempio sull’immigrazione.
La sorte del 2025 non dipenderà solo da Trump e dai suoi sodali, ma anche da come reagiranno Cina e Unione Europea. Nella vita individuale come in quella collettiva, gli anni che passano sono segnati tanto da ciò che accade quanto da ciò che non accade: scelte non fatte, pericoli evitati, treni persi che non ripasseranno. Se vogliamo farci un’idea dell’anno che verrà, allora, dovremmo chiederci che cosa, probabilmente, non accadrà. Consideriamo due eventi tanto necessari quanto improbabili: un cambio di passo sull’intelligenza artificiale e l’emergere dell’Europa come attore globale. Che probabilità c’è che qualcosa si muova su questi fronti?
Oggi, per dirla con Anu Bradford, assistiamo alla competizione tra tre “imperi digitali” con obiettivi e logiche diverse: gli Stati Uniti incarnano il capitalismo del libero mercato guidato dalle Big Tech; la Cina privilegia il controllo statale e la sorveglianza digitale; l’Europa punta su un approccio regolatorio incentrato su privacy e diritti. Un equilibrio che, chiaramente, non funziona. Forse colonizzare Marte o avere camion che guidano da soli è più importante che sviluppare algoritmi per potenziare il lavoro di chi educa bambini e bambine o cura chi si ammala. Ma se dobbiamo investire le maggiori risorse finanziarie e le migliori menti del pianeta in una tecnologia piuttosto che in un’altra, dovremmo smetterla di affidarci solo a imprenditori americani o dittatori cinesi. Servirebbe una svolta politica. Il 1890, per esempio, è celebrato come l’anno dello Sherman Act negli Stati Uniti: la prima regolamentazione antitrust che ha contenuto il potere dei monopoli dell’epoca. Difficilmente, però, il 2025 sarà ricordato per una svolta simile nella governance dell’intelligenza artificiale.
In assenza di un quadro regolatorio internazionale, un modo per incidere lo stesso su questa partita potrebbe essere quello di orientare la domanda globale d’innovazione. In Europa, il 17% dei lavoratori è impiegato nel settore pubblico: un potenziale che le amministrazioni dovrebbero sfruttare investendo in intelligenza artificiale per sostenere la produttività e promuovere tecnologie centrate sulle persone, non sulla loro sostituzione nei processi produttivi. Potrebbe essere proprio l’Europa l’epicentro di questo nuovo modo di farsi “impero digitale”? Difficile se guardiamo a quella che abbiamo oggi. Anche qui servirebbe una svolta. Il 2002 è ricordato come l’anno in cui ha iniziato a circolare l’euro, suggellando l’unione monetaria tra i paesi europei. Difficilmente, però, il 2025 sarà l’anno della realizzazione del pezzo di costruzione europea che ancora manca: l’unione fiscale, con la messa in comune di tasse e debiti sotto l’egida di un’istituzione politica realmente europea.
È quanto richiederebbe il rapporto Draghi, se lo prendessimo sul serio. In Italia, il dibattito su quel rapporto è finito nel tritacarne delle opposte tifoserie. “È quello che serve per rilanciare investimenti e produttività”, hanno commentato alcuni. “Non parla abbastanza di politiche sociali, il termine ‘disuguaglianze’ vi compare a malapena”, hanno ribattuto altri. Per la serie: crescita economica contro giustizia sociale. Pochi, invece, si sono soffermati sulla sostanza politica del rapporto, che non sta nel conteggio delle parole, ma nella qualità delle istituzioni necessarie per attuarlo. Solo con un’unione fiscale, anche limitata ai soli paesi pronti a farla, l’Europa può avere qualche chance di contare nel nuovo scenario globale.
Insomma, Trump o non Trump, il 2025 non sarà né un nuovo 1890 né un nuovo 2002: non ci consegnerà né lo Sherman Act dell’intelligenza artificiale né una nuova Europa. Tuttavia, questi due “non avvenimenti” ci offrono un metro per valutarlo, man mano che si srotolerà: quanto più soddisfacenti saranno i progressi su questi due fronti – l’attivismo dei governi democratici negli investimenti in AI e l’unione fiscale tra i maggiori paesi europei – tanto meno peseranno le occasioni mancate. Perché senza ambizione politica, il futuro fa presto a farsi rimpianto.
Vai al contenuto