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Se la generazione post-Tangentopoli prende il potere

Tommaso Nannicini
Democrazia/#giovani

Secondo i giornali, Letta e Renzi avrebbero siglato “il patto della nuova generazione” o, più prosaicamente, una “tregua a tempo”. Al di là delle semplificazioni, una nuova generazione si sta impossessando delle leve del potere politico. Una generazione che ha fatto appena in tempo, da giovane, a militare nei partiti della Prima Repubblica o in quello che ne restava tra le macerie. Una generazione formatasi politicamente proprio nei tumultuosi anni di Tangentopoli.

Il momento della socializzazione politica – il contesto e le forme in cui si inizia a interessarsi e a fare politica – sono cruciali per spiegare la cultura di una classe dirigente. E la storia del centrosinistra negli ultimi vent’anni non fa eccezione. Forse non è un caso, allora, che i due leader emergenti del Pd provengano dall’area ex-Dc. Letta e Renzi sono molto diversi tra loro, ma entrambi si muovono all’interno di una forte visione degli interessi del Paese. Magari perché, nonostante i limiti, la scuola democristiana ha insegnato loro, quasi naturalmente, a fare i conti con la vocazione maggioritaria.

Altri giovani leader, formatisi altrove, fanno invece fatica da questo punto di vista. Ad alcuni di loro non mancano intelligenza e spessore culturale. Ma sembrano sempre incapaci di affrancarsi dai richiami di una foresta ideologica che hanno a malapena frequentato. La vocazione maggioritaria è a volte abbozzata, ma sempre in secondo piano rispetto al fascino per il “nostro popolo”. Che poi ognuno declina un po’ come vuole: dai sindacati al popolo della rete (sostituto di quello dei fax ai tempi di Tangentopoli), dai girotondi movimentisti alle minoranze portatrici di presunte superiorità morali. Prigionieri di visioni particolari, anche quando hanno le intuizioni giuste per mettersi in sintonia con il Paese, sembrano esserne spaventati, perché la “nostra gente” non capirebbe.

Scomparso il culto, ahinoi, sono rimasti i riti. E il nuovismo di occhettiana memoria o il tatticismo da “funzionariato” in servizio permanente effettivo sembrano gli unici lasciti della sinistra postcomunista. Dell’altra, quella laico-socialista, inutile parlare. Lo tsunami che l’ha colpita allora si è portato via anche i giovani politici che si erano formati in quel brodo di cultura. Non perché non ci fossero, ma forse perché non si sono mai scrollati di dosso quel complesso minoritario e da paria che li ha portati a infrascarsi tra i ranghi minori di questo o quel partito, o a rifugiarsi in professioni estranee alla politica.

Per carità, queste riflessioni lasciano il tempo che trovano. Poco importa, per un democratico, dove si siano formati culturalmente i suoi leader. L’importante è che interpretino in maniera credibile e innovativa, qui e oggi, la funzione storica del Pd nell’interesse del Paese. Ma è forte la tentazione di scorgere una trama interpretativa dietro alle storie personali di una classe dirigente. Dal dualismo tra D’Alema e Veltroni a quello tra Letta e Renzi, dal gruppo dirigente dei Napolitano e degli Amato, dei Martelli e dei Petruccioli, a un esercito di funzionari e segretari regionali che difficilmente si conquisteranno una citazione tra vent’anni: il fallimento della sinistra italiana sta tutto qui.

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