A una settimana dal voto referendario, parla il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: «Se perdiamo non arrivano le cavallette, è solo un’occasione sprecata. I giovani contro di noi? Avrebbero tutto da guadagnare dalla riforma, così come il Mezzogiorno»
«Il nostro Paese ha tutte le risorse economiche e istituzionali necessarie per affrontare qualsiasi turbolenza finanziaria dovesse crearsi, ma è inutile girarci troppo attorno: sui mercati c’è nervosismo in attesa dell’esito del referendum». Pur con la bonomia istituzionale che lo contraddistingue, non usa troppi giri di parole, Tommaso Nannicini. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma prima ancora economista, il professore di Montevarchi è considerato uno dei consiglieri più ascoltati da Matteo Renzi. È a Milano per una serie di incontri sul referendum costituzionale con il mondo dell’economia e della finanza milanese, il giorno in cui l’Economist esce in edicola con il suo endorsement per il No.
Sottosegretario Nannicini, che sta succedendo? I mercati tifano Sì o No?
A me non piace ragionare di Mercati con la M maiuscola. Non esistono spectre che decidono per tutti, ma…
Ma?
Diciamo che per il lavoro che faccio mi capita di incontrare molti osservatori internazionali. Se fino a qualche mese fa ti chiedevano del jobs act, dei suoi risultati, oggi ti chiedono solo del referendum: che fa Mattarella se vince il No, se possa innescarsi un effetto domino che metta in crisi l’Euro. Cose così.
Quindi sono preoccupati della vittoria del No?
C’è un po’ di preoccupazione per gli scenari di instabilità che potrebbero aprirsi dopo, questo mi sembra chiaro e legittimo.
Ci dica la verità: sono più preoccupati perché non passa una riforma istituzionale che gli piace o perché rischia di cadere il governo?
Le due cose stanno insieme. C’è una preoccupazione di breve periodo, per la stabilità del quadro italiano ed europeo. E c’è anche la preoccupazione che l’Italia subisca uno stop nel cammino di riforme che sta facendo.
Quello che l’Economist non vi riconosce, nell’articolo di questa settimana.
Quello che molti altri attenti osservatori ci riconoscono eccome.
Sa cosa dicono, le malelingue? Che tra gli operatori di mercato ci sia chi spera nell’apocalisse, per depredare l’Italia…
Può essere che nei mercati vi sia chi ha disegni più distruttivi, perché nella distruzione si porta via pezzi di macerie. Questo non lo escludo. Ma dubito che sia un fenomeno generalizzato o con qualche speranza di successo.
E lei è preoccupato, invece?
No, per niente. Questo Paese ha affrontato altri passaggi delicati e ben altre fasi di turbolenza. Con la vittoria del No non arriveranno le cavallette, questo dev’essere chiaro. Però perdiamo un’ottima occasione per smentire chi ci guarda con spocchia come un Paese troppo innamorato dei suoi vizi per cambiare fino in fondo.
È quella delle banche, e in particolare del Montepaschi, la questione più delicata?
Quello bancario è un settore molto esposto alle turbolenze e che farebbe volentieri a meno dell’instabilità, questo è chiaro. Detto questo, il nostro sistema bancario è agganciato a un’economia reale che ha subito costi pazzeschi dalla crisi, senza ricevere aiuti pubblici come altri. E le sofferenze che ha in pancia sono più che altro legate alla distruzione di capacità produttiva nella crisi. Va quindi riconosciuta alle banche italiane la resilienza che hanno dimostrato in questo frangente. Non sono rottami, tanto per essere chiari.
Quali sono le riforme che trarrebbero maggior spinta, con una vittoria del Sì?
Ci sono due questioni distinte. La prima è quella di un percorso che rischia di arrestarsi. Ci chiamano il governo degli annunci, ma quel che annunciamo di solito lo realizziamo, dagli 80 euro al jobs act, dall’Ires al taglio contributivo per le partite Iva. Per l’anno prossimo, c’è la sfida del taglio del cuneo contributivo sul lavoro stabile, della pensione di garanzia per i giovani con redditi bassi e carriere discontinue, e della riforma dell’Irpef. E poi ci sono pezzi di riforma del lavoro, della giustizia, della Pubblica Amministrazione, dell’università che devono essere ultimati. Il cammino delle riforme ha bisogno di tempi adeguati. Poi, se quelle riforme non funzionano: a casa e avanti il prossimo.
E il referendum quali aiuterebbe in maniera diretta, invece?
Penso alle politiche attive del lavoro. Per attuarle davvero abbiamo bisogno che la competenza sia nazionale e non più regionale. Così come le politiche di sostegno universale alla povertà assoluta. Solo noi e la Grecia non ce l’avevamo. Con il reddito d’inclusione previsto dalla delega povertà si volta pagina. E non è solo una rete assistenziale, ma crea occupazione, reinserimento lavorativo. Se vince il No c’è uno stop, non solo per instabilità politica, ma anche perché lo Stato centrale non ha i mezzi per occuparsi di questi problemi.
A proposito: tutti i sondaggi danno avanti il No tra i giovani e al Sud. Perché, secondo lei?
Perché non è una scelta dettata dal futuro e da cosa produrrà la vittoria del Sì o del No. È diventato più un dibattito giocato sull’oggi e chi più di altri vive le difficoltà della crisi vota No per esprimere malcontento. Questo è anche colpa nostra, forse. Perché non siamo riusciti a far capire che le risposte più efficaci e rapide ne beneficeranno soprattutto loro.
Per i giovani?
I giovani beneficeranno più di chiunque altro di governi che abbiano traiettorie di sviluppo ben definite. L’instabilità produce mancette e bandierine, che finisci per mettere dove ci sono i gruppi sociali più riconoscibili. Mentre i giovani non chiedono mancette, chiedono futuro, chiedono opportunità, la possibilità di inseguire i propri sogni. Proprio in questa ottica sarebbe un peccato se il cammino delle riforme economiche e sociali che questo governo sta mettendo in campo si arrestasse.
E per il Sud?
La fine della legislazione concorrente riduce gli squilibri territoriali. Non possiamo permetterci un Paese in cui l’efficacia delle politiche sociali dipende dalla parte del confine regionale in cui ti trovi.
Però non avete toccato le regioni a statuto speciale. Come la Sicilia, ad esempio…
Su questo potevamo fare di più. Questa riforma è, come tutte le riforme, un compromesso politico. Secondo me è un grande compromesso politico. È incredibile che una legislatura nata con i presupposti che conosciamo sia riuscita a fare cose di cui si parla da trent’anni. L’unica riforma perfetta è quella che non sarà mai approvata, perché non si confronta con la politica.