Debito o non debito, questo è il dilemma. Le reazioni al rapporto Draghi, vuoi nelle capitali europee vuoi sulla stampa internazionale, esplicite o implicite che siano, ruotano intorno a questa scelta. Le obiezioni a ulteriore debito comune per finanziare le raccomandazioni del rapporto, dopo il debito fatto dall’UE per rispondere alla pandemia, sono due. La prima è di chi argomenta che i problemi di competitività dell’Europa non dipendono dai soldi: l’economia europea investe quanto le altre, a partire da quella statunitense, ma lo fa nei settori sbagliati, quelli tradizionali dove si produce sempre meno valore aggiunto, rispetto a quelli ad alta intensità tecnologica. Abbiamo bisogno di riforme, dal mercato dei capitali a quello del lavoro, non di ulteriori investimenti pubblici con il loro portato di inefficienze e corruttele. La seconda obiezione è di chi vede il rapporto come una scusa ideale per i paesi lassisti del Sud, Italia in testa, per deviare dalla disciplina di bilancio, mascherando la spesa corrente da investimenti. Ecco l’ennesimo tentativo di usare i risparmi della
signora Billmeier per pagare le pensioni del signor Rossi.
Come spesso avviene, queste obiezioni colgono alcuni elementi reali, ma finiscono per offuscare la questione di fondo. È chiaro che non basta la spesa pubblica per sostenere la crescita, altrimenti l’Italia sarebbe la tigre d’Europa. Ma è altrettanto vero che una politica industriale europea può aiutare la riqualificazione produttiva verso settori a più alta intensità tecnologica. E sia una politica industriale di questo tipo sia le riforme dei mercati necessitano di una maggiore integrazione politica. Se Kohl e Mitterand si fossero limitati a chiedersi se l’Europa era un’area valutaria ottimale, probabilmente non avrebbero dato il via libera all’Euro. La moneta unica fu un atto politico. Le leadership europee di allora non si persero in tecnicismi, ma gettarono il cuore oltre l’ostacolo, perché nella moneta unica vedevano il tassello fondamentale di una costruzione politica.
Quella costruzione è rimasta incompiuta. Abbiamo sperimentato tutti i limiti di una politica monetaria comune, priva di un’adeguata politica fiscale comune, durante la Grande Recessione, con i conseguenti effetti collaterali dell’austerità. Poi, grazie alla spinta della pandemia, siamo riusciti a superarli lanciando Next Generation EU. Ma quel programma scadrà dopo il 2026 e già ora dobbiamo decidere se considerarlo solo uno strumento temporaneo anti-pandemia o farne l’embrione di una vera unione fiscale. Senza tasse e debito in comune, non si crea la sovranità europea di cui abbiamo bisogno nell’attuale quadro geoeconomico. Il rapporto Draghi ci ricorda l’urgenza di questa scelta.
Gli ingranaggi della storia sembrano spingere in questa direzione: anche negli Stati Uniti, dopo il New Deal, i poteri e il bilancio del governo federale non sono più tornati indietro. Ma niente è scontato, poiché la seconda obiezione al debito comune, quella sul lassismo dei paesi mediterranei, pur contenendo elementi reali, rischia di farci ricadere negli errori che in passato ci hanno spinti nella trappola dell’austerità: (1) la mancanza di fiducia tra paesi europei; (2) l’incapacità di capire la componente comune dei problemi dell’Europa. Basti pensare alle regole fiscali sempre più rigide
e barocche che ci siamo dati nel corso degli anni. Le regole sono sempre un po’ stupide, perché ti legano le mani quando avresti bisogno di discrezionalità. Ma non sono lì per stupidità. Esistono per un’assenza di fiducia. Gli europei le hanno create perché non si fidavano l’uno dell’altro. E noi italiani le abbiamo recepite, addirittura in Costituzione, perché non ci fidavamo di noi stessi. Oggi, non possiamo permetterci di ricadere in questa spirale di sfiducia.
La discussione necessaria non deve riguardare la mutualizzazione dei vecchi debiti, ma l’efficacia delle nuove risorse comuni. Non deve concentrarsi sulle procedure d’infrazione, ma sulle riforme necessarie per conferire legittimità politica europea alle istituzioni responsabili dell’uso delle risorse comuni. Il debito europeo necessita di un ministro dell’economia europeo. Abbiamo bisogno di una discussione politica tra europee ed europei, non del teatrino tra spendaccioni e rigoristi. Giorgia Meloni ha fatto bene a separare il voto alla Commissione, che è un atto d’indirizzo politico, dalla trattativa intergovernativa sul commissario italiano. Il conflitto politico deve spostarsi a livello europeo. Per questo, merita considerazione la proposta del ministro spagnolo dell’economia Carlos Cuerpo: permettere ad alcuni paesi “volenterosi” di definire le condizioni per il funzionamento di un progetto pilota di unione fiscale, permettendo agli altri di aderire dopo. Costruire un nuovo tassello di unione politica, già oggi e con chi ci sta.
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