Riprendiamoci il controllo. Potrebbe essere questo il titolo del rapporto Draghi sulla competitività europea. Un rapporto che è anche un invito, competente e accorato, a guardare in faccia la realtà di un modello sociale che rischia di non essere più sostenibile, se non facciamo – tutti insieme – scelte coraggiose per far crescere l’economia. Lo so: “riprendiamoci il controllo” era lo slogan dei fautori della Brexit ed è stato scimmiottato da tanti sovranisti, con l’invito a riprendersi moneta e confini, a fermare il treno dell’integrazione europea. Ma quella strada non porta lontano. L’unico modo che abbiamo per riprenderci il controllo non è quello di rinchiudersi nei confini nazionali, diventando schiavi di decisioni prese altrove, da Washington a Pechino, ma quello di costruire una sovranità europea su alcuni assi strategici. È questa l’implicazione del rapporto Draghi.
I fattori che hanno favorito la crescita europea, dall’espansione del commercio internazionale a una stabilità geopolitica garantita dalla pax americana, si sono ingolfati. La partita della crescita si gioca altrove. E l’Europa non c’è. Tra le 50 maggiori imprese tecnologiche, solo quattro sono europee. Per questo, Draghi suggerisce tre strategie congiunte. La prima punta ad aumentare la produttività chiudendo il divario con le altri grandi economie mondiali sul fronte dell’innovazione. Per la serie: la ricreazione è finita. Anche se alcuni treni tecnologici li abbiamo persi, dobbiamo investire in ricerca e formazione non solo per essere più competitivi nei settori ad alta intensità tecnologica, ma per far sì che l’intelligenza artificiale aumenti la produttività in tutti i settori, dall’industria dell’auto a quella farmaceutica. La seconda strategia punta a conciliare la decarbonizzazione della nostra economia con la sua competitività. Qui, l’aggiunta della parola “competitività” ricorda un po’ l’aggiunta di “crescita” al patto di stabilità: un cambio di consapevolezza senza rinnegare l’obiettivo. Non per niente il rapporto ammette che l’industria dell’auto è un esempio dell’errore di adottare una politica sul clima senza integrarla con una politica industriale coerente. La terza strategia riguarda le catene internazionali del valore. Per la serie: non ripetiamo l’errore fatto con la Russia sull’energia. Riduciamo la dipendenza da pochi paesi nell’approvvigionamento di risorse naturale cruciali, dal litio alle terre rare.
Se vogliamo prendere sul serio le tre strategie del rapporto Draghi (e dovremmo farlo), ci sono due nodi da sciogliere: le risorse finanziarie e le istituzioni politiche necessarie per metterle in pratica. Servono soldi. Le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali di noi economisti. Si tratta di mobilitare investimenti aggiuntivi per il 5 percento del Pil europeo (per dare un ordine di grandezza, il Piano Marshall non arrivava al 2 percento). Anche se il settore privato dovrà fare la sua parte, è impossibile pensare a un balzo in avanti di questo tipo senza un piano ambizioso di investimenti pubblici. E questo piano non è pensabile senza un’unione fiscale capace di emettere debito comune. Per fortuna, non è più un problema solo italiano. Nessun paese ha lo spazio fiscale per raccogliere le raccomandazioni del rapporto Draghi senza debito europeo.
E così arriviamo al nodo cruciale, che il rapporto non può esplicitare fino in fondo per non travalicare i limiti del proprio mandato. Un’unione fiscale europea richiede un salto in avanti anche nell’integrazione politica. Risorse comuni richiedono un ministro europeo dell’economia e una vera discussione politica sull’uso delle risorse. Se le raccomandazioni del rapporto vedranno la luce, non sarà perché qualche commissario l’ha ricevuto come allegato alla propria lettera d’incarico, ma perché la costruzione di una vera unione politica ha fatto qualche passo avanti. Oggi, la politica è debole. Macron e Scholz non sono Mitterand e Kohl. Il più piccolo shock politico può far saltare tutto. Ma è impensabile fare lo sforzo titanico che il rapporto Draghi ci invita a fare, per poi vederlo saltare in aria per un’elezione francese, un veto ungherese o una sentenza della Corte costituzionale tedesca. Non avrebbe senso. Dobbiamo percorrere l’ultimo miglio.
Non si tratta di “cedere sovranità”, come troppe volte abbiamo detto. Ma di costruire una nuova sovranità su problemi che non avranno soluzione se non a livello europeo. Con chi ci sta, anche arrivando a uno sdoppiamento istituzionale tra chi si accontenta del mercato unico e chi ambisce a qualcosa di più. E riducendo l’invasività della legislazione europea in settori dove gli stati nazionali possono far da soli. Il rapporto Draghi ci spiega perché questa scelta non è più rinviabile. Ma non è una scelta di politica economica. È una scelta politica. Cari europei e care europee, sveglia. Riprendiamoci il controllo.
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