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Spagna-Italia: il sorpasso

Tommaso Nannicini
Economia/#spagna

In Spagna, la classe dirigente ha chiara l’urgenza della principale sfida per il futuro: far crescere la produttività totale. E non si ha paura di lasciare indietro chi non tiene il ritmo dell’innovazione, siano università inefficienti o imprese poco competitive. In Italia il ministro dell’Economia indica la globalizzazione come causa dei nostri malanni. Ma se vogliamo tornare a crescere, dobbiamo risolvere i problemi interni. A partire da due risorse inutilizzate come Mezzogiorno e lavoro femminile. Aggiungendo molta concorrenza. L’alternativa è solo un dolce declino.

“Dobbiamo promuovere riallocazioni tra settori per aumentare la produttività. Se ciò comporta una maggiore disoccupazione, dobbiamo dare priorità alla produttività perché solo così si avrà occupazione stabile”. In altre parole: dobbiamo favorire gli aggiustamenti richiesti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione, lasciando morire alcune imprese in certi settori per vederne nascere in altri, anche a costo di aumentare la disoccupazione nel breve periodo, perché solo così potremo aumentare reddito e occupazione nel lungo periodo. Chi ha rilasciato questa dichiarazione? Qualche economista dal cuore di pietra? Nient’affatto, trattasi di Cándido Méndez, segretario generale del sindacato spagnolo Ugt, in occasione del primo maggio.

LA SFIDA DELLA PRODUTTIVITÀ TOTALE
In Spagna, la classe dirigente ha chiara l’urgenza della principale sfida per il futuro: far crescere la produttività totale. Nel periodo 1995-2005, quel paese ha conosciuto una crescita media annua del Pil del settore privato pari al 3,6 per cento (un numero da sogno per la stagnante Italia), ma il contributo arrivato della produttività totale dei fattori è stato negativo (-0,9 per cento). (1)

Si è trattato di una crescita ‘estensiva’, sospinta dall’edilizia e basata su incrementi nell’uso dei fattori produttivi, piuttosto che di una crescita ‘intensiva’ fondata su aumenti di efficienza. Nonostante i tempi di vacche grasse continuino, quindi, ci si pone il problema della loro sostenibilità negli anni a venire. La Spagna mantiene punti di debolezza sia nel sistema imprenditoriale sia in quello educativo, tanto che è ancora difficile prevedere se la sfida della crescita intensiva sarà vinta. (2)
Ma la consapevolezza che non esiste altra via è diffusa. E non si ha paura di lasciare per strada chi non tiene il ritmo dell’innovazione, si tratti di università inefficienti o di imprese poco competitive.
La teoria economica insegna che i costi dell’assenza di istituzioni e politiche che incentivino la creatività sono tanto maggiori quanto più un’economia si avvicina alla frontiera della tecnologia. (3)
Il mestiere di chi insegue è relativamente più facile: devi assimilare le tecnologie e i modelli organizzativi usati nei paesi più avanzati e accumulare capitale, magari anche proteggendo un po’ le grandi imprese già esistenti. Per chi si trova già sulla frontiera e deve ogni giorno ridefinirla, invece, le cose si complicano. Si tratta di costruire il futuro , premiando le imprese, i manager, i lavoratori e i ricercatori che hanno dimostrato di saper competere, lasciando indietro gli altri (nessun pasto è gratis). Solo con questa selezione si difende il proprio vantaggio comparato e si aumenta la produttività totale. La sfida non riguarda solo le imprese e il mercato del lavoro: sistema educativo, pubblica amministrazione, partiti politici, università e ricerca, tutto deve favorire l’innovazione e la selezione dei migliori. Anche a costo di minare le rassicuranti certezze di chi è soddisfatto dello status quo distributivo.
In Italia, purtroppo, sembra che l’urgenza di questi temi sia presente solo in dosi omeopatiche. Il neo-(ex-)ministro dell’Economia ha recentemente puntato l’indice contro la globalizzazione come causa dei nostri malanni. (4)
Secondo Giulio Tremonti, si possono imputare alla globalizzazione l’aumento dei prezzi delle materie prime, i problemi ambientali su scala mondiale e le difficoltà dei ceti popolari nei paesi ricchi, a causa dell’effervescente sviluppo dei paesi emergenti. Ma l’accusa contiene già in sé il riconoscimento del merito principale del fenomeno: aver favorito lo sviluppo e l’uscita dalla povertà di una grossa fetta del pianeta. Ammesso, e non concesso, che si possa rallentare lo sviluppo della Cina e di altri paesi, questa strada, oltre che moralmente eccepibile, sarebbe economicamente miope, perché rinunceremmo a opportunità comuni di sviluppo senza risolvere uno solo dei nostri problemi.
La prima cosa che si insegna in un corso di macroeconomia è che le prospettive di crescita del reddito di un paese nel lungo periodo dipendono dalla capacità di aumentare i fattori impiegati nella produzione (lavoro, capitale fisico, capitale umano e materie prime) o di migliorare l’efficienza complessiva e il livello tecnologico (incrementando la produttività totale dei fattori). Su quasi tutti questi fronti, l’Italia è al palo da decenni. Nel periodo 1995-2005, la nostra crescita media è stata dell’1,4 per cento, ma l’1 per cento è dipeso dall’aumento dell’occupazione (grazie alle riforme del mercato del lavoro), mentre il contributo della produttività totale dei fattori è stato negativo (-0,4 per cento). Negli stessi anni, la produttività contribuiva alla crescita Usa per l’1,4 per cento e a quella cinese per il 3,9 per cento. I nostri problemi, insomma, sono interni. E vengono da lontano, visto che il declino del sistema educativo e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi. Se la nostra classe dirigente cercherà di cavalcare facili capri espiatori, si comporterà come quei genitori che, per quieto vivere familiare, danno ragione ai figli che imputano la colpa dei loro brutti voti ai professori. Come se i nodi non venissero al pettine, al momento dell’ingresso (dei cattivi studenti) nel mondo del lavoro.

VERSO IL DOLCE DECLINO?
Certo, i cambiamenti richiesti alle nostre economie provocano paure e incertezze, cui i cittadini chiedono risposte immediate, pena trasformarsi in elettori incattiviti pronti a soffiare sulle vele del neo-populismo protezionista. Può darsi che il tremontismo sia politicamente utile per intercettare le ansie degli elettori. Ma, alla resa dei conti, non risolverà i loro problemi. Il fenomeno non è nuovo. Così come ogni volta che c’è paura di un nemico esterno scattano riflessi condizionati a livello sociale che mettono a rischio le libertà civili, appena ci sono difficoltà economiche nascono rigurgiti protezionistici e di ostilità verso il mercato, almeno dai tempi delle civilizzazioni del Mediterraneo. (5) Le soluzioni non sono mai arrivate da chi ha cavalcato la paura in chiave anti-liberale, ma da chi si è rimboccato le maniche per costruire un’equilibrata miscela di democrazia, mercato e stato sociale.

Se l’Italia vuole tornare a crescere, deve risolvere i suoi problemi interni. Cercando di dare fondo a due risorse inutilizzate come il Mezzogiorno (abbattendo rigidità salariali, costi burocratici e criminalità) e il lavoro femminile (spendendo meno in pensioni e più in asili nido). E rimettendo in moto gli italiani con dosi massicce di concorrenza: dai servizi finanziari alla distribuzione commerciale, dai servizi pubblici locali a quelli alla persona, dal settore pubblico all’università. Questa strategia d’urto comporta dei costi. Liberalizzando, molti perderanno rendite e si troveranno in difficoltà. A colpi di merito, qualcuno verrà lasciato per strada.
Se non si vogliono pagare questi costi, esiste sempre l’alternativa del declino dolce. Dati i livelli di reddito raggiunti dal nostro paese, possiamo mandare avanti la baracca e goderci il quieto vivere senza stress per altri decenni. Accettando, in cambio, che risorse preziose vadano all’estero per valorizzare le loro capacità. Che le famiglie che non hanno accumulato ricchezza grazie allo sviluppo del dopoguerra, o al debito pubblico dei decenni successivi, siano le prime a scivolare sotto la soglia di povertà. Che turismo, moda e cibo, finché le pressioni competitive non saranno troppo forti anche lì, siano l’unica presenza dell’Italia all’estero. Augurandoci buona fortuna.

(1) Tutti i dati riportati su crescita e produttività sono ripresi dalle stime di Van Ark B., O’Mahoney M. e Timmer M.P. (2008), “The Productivity Gap between Europe and the United States: Trends and Causes”, Journal of Economic Perspectives, 22(1), pp. 25-44.
(2) Si veda Pérez-Díaz V. (2002), Una interpretación liberal del futuro de España, Taurus.
(3) Si veda il modello teorico proposto da Acemoglu D., Aghion P. e Zilibotti F. (2006), “Distance to Frontier, Selection, and Economic Growth”, Journal of the European Economic Association, 4(1), pp.37-74. Per una strategia di crescita basata su innovazione e selezione, si legga Sapir A. et al. (2004), An Agenda for a Growing Europe, Oxford University Press.
(4) Si veda Tremonti G. (2008), La paura e la speranza, Mondadori.
(5)Si legga Pipes R. (2000), Property and Freedom, Vintage. Sul legame tra minacce esterne e libertà civili, si veda Lewis A. (2008), Freedom for the Thought That We Hate, Basic Books.

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