Bentornato sentiero stretto. La tenaglia tra promesse della politica e vincoli di bilancio è di nuovo la chiave di volta della nostra politica economica. Gli anni della spesa facile, spinti dalla risposta alla crisi pandemica, appartengono al passato.
Il ministro Giorgetti ha licenziato una legge di bilancio che riflette questo cambio di passo. Nonostante gli annunci o le promesse di questa o quella forza politica, la priorità del governo – costruita sull’asse tra ministero dell’economia e Palazzo Chigi – è risultata quella di voler rassicurare partner europei e mercati. Si è deciso di evitare turbolenze per rinviare le promesse elettorali a tempi migliori, puntando a un orizzonte di legislatura.
Tuttavia, l’ordine nei conti è stato raggiunto con non pochi equilibrismi. Per iniziare, il governo stima che l’aumento eccezionale delle entrate fiscali registrato nel corso di quest’anno si manterrà nei prossimi: un’ipotesi ancora tutta da verificare. Dopodiché, la manovra è piena di entrate una tantum: il famigerato prelievo sulle banche alla fine è solo un prestito, che gli istituti finanziari recupereranno nei prossimi esercizi sotto forma di crediti fiscali; la stretta sulla tassazione d’impresa, con la riformulazione dell’ACE, darà entrate nel prossimo biennio, ma si trasformerà in un costo per le casse dello Stato subito dopo. E nessuna di queste misure può essere estesa strutturalmente. Essendo ancora al primo anno dell’aggiustamento richiesto dalle regole europee, per ora l’UE ci concede queste una tantum, ma dal prossimo anno la musica cambierà.
Il governo stima di risparmiare più di due miliardi e mezzo all’anno dai tagli ai ministeri. Buona fortuna: anche l’austero governo Monti non era riuscito ad andare oltre il miliardo. Inoltre, le spese per investimenti appaiono sottostimate, considerando i progetti Pnrr ancora da realizzare: forse si sta già valutando di tagliarne qualcuno? Se a questo si aggiunge che il concordato preventivo sarà un flop, si capisce che la stabilità dei conti resta alquanto incerta. La palla è solo buttata in avanti.
Dal lato delle spese, la legge di bilancio ha il merito di rendere strutturali alcune misure giù introdotte come temporanee. È così che ci si deve muovere quando il sentiero è stretto. Il taglio del cuneo fiscale viene inglobato nella tassazione del reddito e, insieme all’alleggerimento delle aliquote Irpef, costa 17 miliardi. Non certo noccioline. Qualcuno obietterà che non è abbastanza, ma aver reso strutturali queste misure è positivo. Lo stesso vale per l’aumento delle indennità dei congedi parentali, che copriranno l’80% della retribuzione (al posto del vecchio 30%) nei primi tre mesi d’utilizzo. È una misura giusta. Anche qui si può obiettare che si sarebbe potuto approfittare di questo intervento per sostenere la genitorialità condivisa, destinando una parte degli aumenti ai soli padri, ma da un governo che punta tutto sulla retorica della “maternità”, piuttosto che della “genitorialità”, sarebbe stato strano aspettarsi qualcosa di diverso, e una maggiore parità nell’uso dei congedi potrebbe arrivare indirettamente dalla loro accresciuta generosità.
Sul piano delle tasse, altri dubbi arrivano dal tetto alle detrazioni per spese fiscali (veterinarie, sportive, per interessi sui mutui, intermediazione immobiliare, trasporto pubblico, e via snocciolando). È una misura giusta in linea di principio, che taglia sussidi incontrollati ai ceti medio-alti. Ma la sua realizzazione discrimina senza valide ragioni i single e le famiglie senza figli, oltre a introdurre – come denunciato da Chiara Saraceno su queste colonne – una discriminazione ingiusta e di dubbia costituzionalità verso persone con cittadinanza extra-UE. Per combattere una battaglia di retroguardia pro-natalista, si rende il sistema fiscale più complesso invece di semplificarlo. E lo stesso vale per i nuovi balzelli sul digitale, che Luigi Einaudi avrebbe chiamato “tassette”. Per ottenere gettiti irrisori, si distorce il mercato e si fanno scappare basi imponibili che avrebbero potuto produrre più gettito in futuro, se le si fosse fatte crescere con calma.
La grande assente, poi, è una politica industriale associata a una chiara strategia di crescita per il nostro Paese, ma se neppure chi aveva ingenti risorse da spendere l’ha disegnata, non è facile imputarne l’assenza all’attuale governo. Tutto sommato, va riconosciuto che il ministro Giorgetti si è mosso meglio all’interno del sentiero stretto di quanto alcuni suoi predecessori abbiano fatto nell’era della spesa facile, trasformando il debito accumulato durante la pandemia, a livello nazionale ed europeo, in una grande occasione sprecata per il nostro Paese.
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