Tra di loro, si conoscono appena. Si sono incrociati soltanto una volta, durante una conferenza scientifica ad Amsterdam, nel corso della quale alcuni colleghi li hanno presentati per scherzare sulla strana assonanza tra i loro nomi: Tommaso e Tomasso. Sono entrambi ricercatori in economia. L’inizio della loro trafila accademica è stato pressoché identico: dopo la laurea, prima un master e poi un Ph.D. (o dottorato di ricerca che dir si voglia) in istituzioni universitarie conosciute a livello internazionale. Ma – una volta finito il Ph.D. – le loro strade si sono biforcate. Tommaso ha accettato un assegno di ricerca in un’università italiana. Tomasso ha deciso di buttarsi nelle acque agitate del mercato del lavoro internazionale per gli economisti.
La prima cosa che Tommaso ha intuito prendendo possesso della sua postazione di lavoro da assegnista di ricerca è che, nel mondo accademico italiano, l’abito fa il monaco. Tutto dipende dal tipo di posizione/contratto in cui sei incasellato: status, considerazione, accesso ai servizi e agli strumenti che ti servono per svolgere il tuo lavoro. Sulla porta della sua stanza (collettiva) non ci sono scritti i nomi delle persone che la occupano, ma la generica dicitura di “assegnisti di ricerca”, come se il tipo di lavoro che una persona svolge all’interno di una struttura dipendesse dal contratto con cui è temporaneamente assunto e non da quello che fa o delle qualificazioni che possiede.
Pochi giorni dopo il suo arrivo, Tommaso ha avuto una prima riprova di questa impressione: il computer che aveva in dotazione ha smesso di funzionare e, quando ha cercato di contattare un tecnico per risolvere il problema, si è sentito rispondere che per far partire l’incidenza doveva indicare il nome di uno “strutturato di riferimento” (un docente con contratto permanente). Per la serie: può anche darsi che tu faccia ricerca in questa struttura, ma per noi non esisti finché non ce lo dice qualcuno “di ruolo”. Ovviamente, lo stesso vale per altri (e più importanti) aspetti del lavoro quotidiano di un ricercatore. È il caso della possibilità di presentare richieste di finanziamento per specifici progetti di ricerca. Per un giovane che voglia investire su autonome linee di ricerca(senza passare per il beneplacito di un professore ordinario), ci sono poche alternative rispetto a sbattere la testa nel muro.
Le barriere tra ruoli diversi diventano più evanescenti quando si tratta di ripartire i carichi didattici. Nel suo primo anno da assegnista, Tommaso ha anche insegnato tre corsi universitari, firmando con la facoltà incarichi separati come docente a contratto.
Tre corsi (con il carico annesso di ricevimenti, tesi di laurea, ecc.) per una remunerazione totale inferiore ai 2.000 euro all’anno, con nessun incremento di status all’interno della struttura, se si escludono gli ignari studenti che hanno iniziato a chiamarlo “professore” con tono reverenziale. Nel complesso, lo stipendio da assegnista di Tommaso supera di poco i 1.000 euro al mese. Inutile aggiungere che il sostegno (economico, ma non solo) della famiglia di origine è indispensabile per non mollare strada facendo.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta della normale gavetta cui si va incontro quando si cerca di farsi strada in una qualsivoglia professione. A questo qualcuno, però, sfuggono due elementi. Primo: l’età media di chi si trova in questa situazione è intorno ai 30 anni e quando vi si arriva si è già passati per un’attività post-laurea non indifferente. Secondo: in qualsiasi paese straniero, gavetta significa sì dover dimostrare il proprio potenziale e quindi lavorare con un contratto temporaneo (in attesa di conferma a ruolo), ma essendo messi nelle condizioni di provare quello di cui si è capaci (ricevendo da subito un pacchetto adeguato di remunerazione, status e strumenti di lavoro). Ovviamente, il patto implicito è che – se non si produce ricerca al livello per cui si è stati assunti, secondo standard riconosciuti a livello internazionale – si devono fare i bagagli e magari cambiare lavoro. In Italia, niente di tutto questo. Un giovane ricercatore che, dopo la laurea (solitamente con lode), ha investito mediamente 5 anni in attività di alta formazione e ricerca, e che si trova in uno dei periodi più fecondi dal punto di vista della produttività scientifica, deve accettare un impiego sottopagato e privo di qualsiasi riconoscimento e/o strumento adeguato per svolgere il proprio lavoro, soltanto per mettere un primo piede nel mondo accademico.
E che cosa avviene dopo che si è riusciti a mettere questo primo piede? Ci si deve mettere in fila, in attesa di un concorso per il posto di ricercatore: il primo gradino della carriera universitaria “di ruolo”, più in basso di quelli di professore associato e di professore ordinario, ma anch’esso con un contratto praticamente a vita. Come astrologi che interrogano le stelle, si deve cercare di analizzare un intricato intreccio di fondi disponibili, equilibri di potere tra facoltà e dipartimenti, per capire dove e quando uscirà un concorso ad hoc o perlomeno abbordabile, visto che è buona regola non andare a disturbare i concorsi banditi per candidati interni. L’incertezza è aumentata dal fatto che il concorso per ricercatore consiste di due prove scritte, come se un Ph.D. non fosse sufficiente per testimoniare la conoscenza della materia. Il tutto per un ingresso a ruolo che nella maggioranza dei casi avviene nella fascia di età tra i 30 e i 35 anni. E per continuare a guadagnare poco più di 1.000 euro al mese, sottostando a vincoli gerarchici altrettanto stretti e aspettative di avanzamento al gradino successivo altrettanto erratiche.
Certo, non va sottaciuto che il posto di ricercatore di ruolo è garantito a vita, e che permette di accedere a innalzamenti di stipendio legati all’anzianità e del tutto sganciati dalla produzione scientifica. Anche se si guadagna poco a inizio carriera, il profilo temporale della progressione salariale è molto ripido. Di nuovo, l’esatto contrario di quanto solitamente avviene all’estero. Negli Stati Uniti, per esempio, a parità di anzianità, la dispersione salariale è alta (mentre è nulla in Italia), perché è legata alla produttività scientifica. Il lecturer inglese (gradino iniziale della scala accademica prima del reader e del full professor) che permane a lungo in questa posizione “segnala” la propria scarsa competitività e viene penalizzato di conseguenza; il ricercatore italiano che non riesce a diventare professore associato raddoppia comunque il proprio stipendio con 17 anni di anzianità, e quasi lo triplica dopo 35 anni.
A questo punto, qualcuno potrebbe chiedere al nostro Tommaso: ma chi te lo ha fatto fare? La risposta non è univoca. Bene o male, esiste l’altra faccia della medaglia. Tommaso è italiano e vuole vivere nel suo paese. È sposato, sua moglie lavora in Italia, e insieme vorrebbero radicare qui la loro famiglia. E la flessibilità e l’autonomia che ti lascia il lavoro del ricercatore sono difficilmente rintracciabili in altre professioni. Il problema è che il patto scellerato – pochi strumenti per la ricerca in cambio di nessuna valutazione sul merito di quello che produci, bassa remunerazione in cambio del posto a vita – finisce per ridurre la produttività anche dei più volenterosi. A onor del vero, qualcosa comincia a cambiare. In settori più esposti alla concorrenza/comparazione internazionale (come le scienze economiche), si comincia ad avvertire che l’accademia italiana non potrà proteggere ancora a lungo le proprie rendite di posizione. Gradualmente, dipartimento dopo dipartimento, si comincia a registrare una diversa apertura a criteri di merito. Ma siamo in Italia. E i tempi del cambiamento sono difficilmente prevedibili.
Ma torniamo al nostro secondo protagonista. Che cosa è successo a Tomasso, una volta che ha deciso di lasciare l’Italia e accettare la sfida del mercato internazionale? Per mettere a punto le sue pubblicazioni e diventare più competitivo sul mercato, subito dopo il Ph.D., Tomasso ha fatto domanda per una posizione post-doc (una borsa di ricerca che si ottiene dopo il dottorato) presso un’università straniera (una tra le prime 50 nel mondo e tra le prime 10 in Europa, secondo le ultime classifiche che tengono conto delle pubblicazioni dei membri dei dipartimenti di economia). Ha mandato il proprio curriculum, includendo la lista delle proprie pubblicazioni e i nomi di tre referees che potevano essere contattati per ottenere giudizi sul suo conto, ed è stato chiamato a fare ricerca in quella università per un anno, con uno stipendio netto di 3.000 euro al mese (all’incirca il triplo del suo quasi-omonimo rimasto in Italia).
La prima cosa che Tomasso ha capito, prendendo possesso del suo nuovo ufficio, è che nell’istituzione da cui è stato selezionato l’abito non fa il monaco. Sebbene assunto con un contratto temporaneo della durata di un anno, ecco che sulla porta troneggia la
dicitura: “Prof. Dr. Tomasso” (il titolo di dottore, ovviamente, si riferisce al Ph.D. e non alla laurea come in Italia, caso quasi unico al mondo). Ovviamente, anche nel dipartimento straniero in cui è capitato esistono gerarchie più o meno formali. Ma le gerarchie non influenzano gli strumenti che vengono messi a disposizione dei giovani ricercatori per esprimere il loro potenziale. E un giovane post-doc con una pubblicazione su “Econometrica” (una delle maggiori riviste internazionali per le scienze economiche) gode di molta più considerazione di un professore di ruolo che ormai non produce pubblicazioni di rilievo da anni. Dopo il primo anno, Tomasso ha ricevuto l’opportunità di restare
nell’università straniera con un contratto di Visiting Professor (affiancando al proprio lavoro di ricerca un carico didattico di tre corsi all’anno). Con questa ulteriore esperienza, Tomasso spera di mettersi in regola per tentare di ottenere una posizione più stabile sul mercato internazionale per gli economisti (il cosiddetto job market).
Il job market, grosso modo, funziona così: si sceglie un insieme di università in cui esiste una posizione d’ingresso aperta, e si fa domanda inviando il proprio curriculum.
Tutto quello che ti serve per essere competitivo sono buone pubblicazioni su riviste internazionali (o lavori in corso con il potenziale di raggiungere tali standard), buone presentazioni (basate sulla tua performance prima come studente e poi come giovane ricercatore), e un Ph.D. preferibilmente ottenuto presso un’università con una buona reputazione a livello internazionale. Tutto si gioca su questi parametri e sul seminario che sei chiamato a tenere presso un’università a cui hai fatto domanda: seminario in cui devi presentare uno dei tuoi lavori e mostrare la tua capacità di fare ricerca.
Una volta ottenuta una posizione di ingresso (l’equivalente di quella di Assistan Professor nelle università americane), si è integrati a pieno titolo nel dipartimento, ma si è assunti ancora con un contratto a tempo, all’interno di un percorso (tenure-track) che può portare alla conferma a ruolo. Entro 6 anni, secondo criteri di produttività scientifica trasparenti e stabiliti in anticipo (di solito, un certo numero di pubblicazioni in riviste internazionali con referaggio), il dipartimento deve decidere se offrirti la tenure (il posto di ruolo a vita) oppure rinunciare ai tuoi servigi e rispedirti sul mercato. Un patto completamente diverso da quello in vigore nell’accademia italiana, dove piuttosto che a un tempo massimo, per il passaggio al gradino successivo, si è esposti a un tempo minimo (“prima di 6 anni non se ne parla”, si sentono dire molti ricercatori per motivi che niente hanno a che fare con la loro produttività).
Ovviamente, anche in questo caso, esiste l’altra faccia della medaglia. Tomasso, come il suo quasi-omonimo, è italiano e vorrebbe radicare la propria famiglia nel suo paese. Mettersi in gioco nel mercato internazionale può sembrare eccitante in prima battuta, ma è altamente stressante e produce costi di mobilità (anche psicologici) non indifferenti. Last but not least, solo chi ha la fortuna di avere una moglie pronta a condividere i costi di continui sradicamenti può tentare serenamente l’avventura di cui sopra.
A differenza degli apologhi tradizionali, questa storiella (ogni riferimento a fatti o persone del mondo reale è puramente casuale) non ha una morale univoca. È difficile dire quale sia la strada giusta tra quella scelta da Tommaso e quella intrapresa da Tomasso. Restare intrappolati in un sistema scarsamente competitivo, che premia l’anzianità piuttosto che il merito, ma che garantisce comunque sicurezza di vita e margini di flessibilità per seguire i propri interessi e le proprie passioni? Oppure accettare la sfida di un sistema competitivo, capace di offrire sia grandi gratificazioni sia cocenti delusioni, con il vantaggio di farti conoscere il mondo ma al prezzo non piccolo di sradicarti dal tuo ambiente e dalle tue relazioni? È un quesito che non consente risposta. Il vero problema è che l’aut-aut tra la trappola e la fuga non dovrebbe porsi nei termini di cui sopra. Se il sistema di ricerca italiano fosse sufficientemente aperto e competitivo, secondo standard riconosciuti a livello internazionale, ognuno potrebbe muoversi liberamente secondo le proprie inclinazioni e/o le proprie capacità. Spesso si punta il dito sulla “fuga dei cervelli” dall’Italia. Ma ciò che dovrebbe preoccupare ugualmente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Come sottolineato da un recente intervento di Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti su www.lavoce.info, nei corsi di dottorato italiani, soltanto il 2% degli studenti proviene dall’estero e, in tutto, meno di 3.500 persone provenienti da altri paesi dell’UE lavorano nel nostro settore scientificotecnologico. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei), il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e più di 42.000 cittadini dell’UE (non britannici) lavorano lì come ricercatori. Il tutto perché il sistema universitario italiano risulta scarsamente competitivo e attrattivo. Insomma: quanto dovranno ancora aspettare i giovani ricercatori italiani per riconquistare la propria libertà di scelta? Per vedere finalmente spezzato l’aut-aut tra la trappola e la fuga?