Linkiesta

Tasse e spesa: poche differenze fra destra e sinistra

Tommaso Nannicini, Isabella Rota Baldini
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Ai politici la pressione fiscale fa un po’ l’effetto dell’anello su Gollum: bramano di controllarla per guadagnare voti in campagna elettorale. Ma finiscono per esserne schiacciati una volta al governo, perché non riescono a diminuirla a fronte delle vischiosità di una spesa pubblica difficile da ridurre. Nel corso di questa campagna elettorale, la “lotta di tasse” (copyright Libero) non ha riguardato solo le promesse per il futuro, ma anche gli andamenti passati. Non si contano le dichiarazioni di politici che rivendicano il merito di aver ridotto le tasse per i propri governi o stigmatizzano l’aumento delle tasse operato dai governi degli altri.

Rivendicazioni del genere hanno molti limiti: una variazione della pressione fiscale (nominale o in percentuale del Pil) può avvenire per ragioni che non c’azzeccano niente con le scelte di politica economica, dal ciclo dell’economia agli andamenti dell’evasione fiscale. I politici farebbero meglio a precisare le misure di riduzione fiscale cui fanno riferimento, piuttosto che citare qualche numero fuori contesto – ancorché corretto – a proprio uso e consumo. Ma tant’è: visto l’andazzo, vale la pena mettere in fila qualche numero. Come abbiamo già fatto per i conti pubblici, compariamo gli andamenti di pressione fiscale e spesa pubblica sotto i governi di centrosinistra e centrodestra nell’arco della Seconda Repubblica. (1)

A prima vista (barre rosse), la figura conferma uno stereotipo diffuso: il centrosinistra è il partito delle tasse che aumentano e il centrodestra quello delle tasse che diminuiscono (o dell’irresponsabilità fiscale, a seconda dei gusti). Ma il semplice confronto con quello che accadeva in Germania nello stesso periodo, per controllare il ciclo comune ai due paesi, annulla questa percezione. Di fatto, entrambe le coalizioni stavano facendo quello che si faceva altrove. Lo scostamento della variazione media annua della pressione fiscale rispetto alla Germania è nullo negli anni del centrosinistra e pari a 0,1 punti percentuali sotto il centrodestra. Fa eccezione il 2007, durante il quale il governo Prodi ha registrato un aumento della pressione fiscale maggiore rispetto alla Germania. Ma anche questo annus horribilis non cambia il confronto nell’arco della Seconda Repubblica.

Lo stesso discorso vale se si considera l’aliquota di tassazione implicita sul lavoro (2) (che riportiamo in appendice per gli amanti del genere): sia centrosinistra sia centrodestra, in media, l’hanno aumentata di 0,2 punti percentuali in più rispetto alla Germania ogni anno, con un picco di differenza di 1,5 punti nel 2007 sotto Prodi. Insomma, non grandi differenze fra i nostri due schieramenti, ma una differenza significativa rispetto a uno dei maggiori partner europei: le nostre tasse sul lavoro sono aumentate di più negli ultimi vent’anni, in maniera cumulata e bipartisan, contribuendo non poco ai nostri problemi di competitività.

La seconda figura riguarda la spesa complessiva dello Stato (riportiamo invece in appendice la spesa per la protezione sociale). Anche qui gli stereotipi di un centrosinistra attento al controllo della spesa e di un centrodestra spendaccione si riducono nel confronto con la Germania. Resta vero, però, che lo sforzo di aggiustamento della prima di stagione di centrosinistra sembra aver inciso soprattutto dal lato delle minori spese rispetto alle maggiori entrate: proprio come vorrebbero i “liberisti” – ammesso che questo termine significhi davvero qualcosa – Alesina e Giavazzi. E resta altrettanto vero che il centrosinistra, nel ridurre la spesa complessiva, ha sempre salvaguardato la spesa sociale (pensioni in primis?), che non ha registrato le riduzioni rispetto al Pil che avvenivano in altre voci o nella vicina Germania. Anche sotto il centrodestra, comunque, la spesa sociale è sempre aumentata più che in Germania.

E qui dovremmo fermarci, perché non ha molto senso estendere questi confronti a variabili macroeconomiche come la crescita o gli andamenti occupazionali, sulle quali gli effetti della politica economica si fanno vedere con molto ritardo, anche se i politici si lanciano spesso in confronti del genere tra governi diversi (immancabilmente a proprio uso e consumo). Ci sono due confronti, però, che rendono l’idea. Le ultime due figure riportano gli andamenti della produttività, della remunerazione complessiva e del costo unitario del lavoro in Italia e in Germania. Lungo tutto l’arco della Seconda Repubblica, la nostra produttività è cresciuta meno – facendo registrare un vero e proprio encefalogramma piatto dopo il 2000 – e il costo unitario molto di più rispetto alla Germania (dove produttività e remunerazione sono invece andate perfettamente a braccetto fra loro). È questo il grande lascito bipartisan degli ultimi venti anni. Un lascito di cui nessuno, chissà perché, sembra aver voglia di parlare in campagna elettorale.

Note:
(1) Esattamente come nell’articolo precedente sui conti pubblici, abbiamo tolto gli anni di transizione da una maggioranza politica all’altra, perché gli andamenti di politica fiscale di quegli anni non possono essere completamente imputati alle leggi finanziarie dell’anno precedente, data la possibilità di manovre correttive del governo in carica in corso d’anno. Le medie non cambiano di molto se si attribuiscono gli anni di transizione per la metà a ognuna delle coalizioni di centrosinistra e centrodestra.
(2) Rapporto fra la somma di imposte e contributi sociali sul totale della retribuzione dei lavoratori dipendenti.

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