Come denunciato dal Forum del Terzo settore e discusso a più riprese sul Riformista, il Pnrr rischia di passare sopra – come se niente fosse accaduto – al mondo del privato sociale, i cui enti potranno al massimo essere coinvolti indirettamente da qualche istituzione locale. Purtroppo questo fenomeno è solo la spia di una patologia più grave, di una fragilità e di una perdita di prospettiva dell’intervento pubblico nel nostro Paese. Il Terzo settore tiene insieme persone, fragilità, territori. È uno dei settori chiave per la coesione sociale su tutto il territorio nazionale, non solo nelle fasi di emergenza come una pandemia, ma nella miriade di servizi che associazioni, enti e cooperative svolgono ogni giorno. La politica non ha difficoltà a tributare questo riconoscimento nei suoi convegni e nelle sue campagne elettorali. Ma poi spesso se ne dimentica nei suoi decreti legge, nei suoi bandi, nelle sue convenzioni. Questo divario tra parole e fatti grida francamente vendetta.
Il Terzo settore produce il 5 percento del Pil italiano e occupa oltre un milione di persone, con servizi sempre più specifici, innovativi e professionali. È impossibile continuare a vedere il lavoro sociale come mero volontarismo da missionari, in cui la parte di empatia e assistenza con la vittima o con il beneficiario sono gli unici elementi per la valutazione del lavoro svolto. Il volontariato è fondamentale e va rilanciato con politiche e approcci nuovi. Ma questa narrativa che mette al centro solo l’approccio caritatevole rischia di far percepire il Terzo settore come un settore a scarso valore aggiunto. Non è così. Non è un caso, infatti, se in altri paesi si assiste a un passaggio osmotico di management tra Terzo settore e imprese, a testimonianza dell’alta considerazione professionale che viene riconosciuta al mondo del no-profit. Da noi, invece, il Terzo settore è spesso trattato come fornitore di mano d’opera a basso costo, una sorta di agenzia interinale di serie B. Per capirlo, basta imbattersi in bandi e convenzioni dove si integrano gli organici pubblici con lavoratrici e lavoratori di cooperative che svolgono lo stesso lavoro dei dipendenti venendo pagati almeno il 30 percento in meno.
Nei budget dei servizi che vengono messi a gara dalle amministrazioni pubbliche, i costi generali di struttura e il lavoro a essi connesso, quando sono riconosciuti, sono risicatissimi. Le retribuzioni orarie riconosciute agli operatori sociali sono estremamente basse, sia rispetto al valore sociale che producono sia rispetto al loro grado di professionalizzazione. In queste condizioni, è giusto chiedere che questi interventi abbiamo qualità e garantiscano un impatto positivo sui beneficiari? È giusto chiedere un alto livello di servizio in assenza di un Ccnl del Terzo settore, attualmente diviso tra il contratto delle cooperative sociali e quello del commercio? Davvero si può pensare di avere elevati livelli di assistenza e innovazione sociale con paghe che superano a fatica la soglia del lavoro povero? Perché, se un’azienda profit tiene una quota di costi generali tra il 20 e il 30 percento, una struttura del Terzo settore dovrebbe riuscire a garantire la qualità del lavoro dei propri dipendenti con una quota tra lo zero e il 7 percento? La conseguenza di questa miopia (o ipocrisia) politica è un turnover estremo e a senso unico, con molti operatori che escono dal Terzo settore per un lavoro migliore, meglio retribuito e prospettive di crescita più alte nel privato non sociale.
Vediamo allora qualche proposta concreta per contrastare questa patologia dell’intervento pubblico. Prima ancora di allargare la rete dei nostri servizi di welfare valorizzando il ruolo del Terzo settore in ogni intervento legislativo – cosa che va indubbiamente fatta – dobbiamo offrire un nuovo patto agli operatori del settore. Serve un nuovo Ccnl per gli operatori del Terzo settore che non rientrano in quello delle cooperative sociali, e serve un adeguamento di quest’ultimo per aumentare di almeno il 30 percento le retribuzioni attualmente previste per le figure specializzate. Ma affinché questo sia possibile, serve un intervento legislativo opportunamente finanziato che – a parità di bandi e convenzioni – preveda che (1) il costo della manodopera non possa essere né oggetto di ribasso, né inferiore al livello retributivo di riferimento per i dipendenti pubblici che svolgono lo stesso servizio o servizi analoghi; (2) i costi generali di struttura non siano inferiori al 15 percento; (3) eventuali rinnovi delle convenzioni debbano valorizzare gli investimenti in formazione e relazioni che gli operatori hanno fatto sul territorio. Se il terzo punto vale per i balneari che ristrutturano un pezzo di spiaggia, non si capisce perché non debba valere per chi si prende cura del bene comune più prezioso che abbiamo: la coesione sociale. Certo, questi tre interventi legislativi costano. Ma trovare le risorse per finanziarli dovrebbe essere una priorità per chiunque voglia ricostruire il nostro stato sociale. Partendo da scelte concrete, da un nuovo patto da offrire al Terzo settore.
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