La tentazione manichea di dividere il mondo in due categorie esclusive, quella dei buoni e quella dei cattivi, ha radici antiche (ben più antiche del movimento religioso ispirato al profeta Mani, risalente al III secolo d.C.). Risponde a esigenze psicologiche profonde. E si manifesta attraverso due atteggiamenti distinti: il buonismo, vale a dire l’ostentazione verbale dei buoni sentimenti (mirante ad autoincludersi nella categoria dei buoni); il rito del capro espiatorio, cioè l’individuazione di un unico colpevole, responsabile dei piccoli e grandi drammi della vita individuale o collettiva (mirante a delimitare con un “cordone sanitario” la categoria dei cattivi).
Il primo atteggiamento nasce da un bisogno di autoinganno rispetto alle proprie debolezze. Come osservava Kant, l’uomo è un “legno storto”, imperfetto e destinato a rimanere tale, con buona pace di tutte le utopie palingenetiche. L’accettazione di questa semplice verità a livello individuale non è facile, poiché a nessuno piace specchiarsi nelle proprie debolezze: piccole o grandi meschinità, invidie, egoismi. L’ostentazione moralistica di nobili propositi o di un solidarismo di maniera offre l’opportunità di rifarsi il trucco. Il secondo atteggiamento nasce dal bisogno di individuare un responsabile esterno dei propri fallimenti, un parafulmine contro cui scaricare le frustrazioni che la vita porta ad accumulare. Se non vinciamo un concorso, la ragione non risiede nella nostra impreparazione o nella cattiva sorte, ma nel fatto che gli “altri” avevano più accosti di noi. Se passiamo l’adolescenza in un bar giocando a carte, mentre “altri” si ammazzano di studio, dovremmo aspettarci che questi “altri” raccolgano i frutti del loro investimento in capitale umano anche sotto forma di pensioni più elevate, ma nonostante questo siamo sempre pronti a sbraitare (magari nello stesso bar di un tempo) contro l’ingiustizia delle pensioni d’oro.
Entrambi gli atteggiamenti attraverso i quali il manicheismo si manifesta- il buonismo e il rito del capro espiatorio- hanno come fine ultimo l’autoassoluzione, la fuga dalle responsabilità. Ma che cosa c’entra tutto questo con la politica? La mia tesi è che la politica si sia appropriata di questo fenomeno e nel tentativo di sfruttarlo ne sia rimasta vittima. Tanto che oggi il manicheismo appare una delle più gravi patologie della politica, nel nostro paese in modo particolare. Per non restare nel vago, proviamo a isolare un esempio per ognuna delle sue manifestazioni.
BUONISMO E TERZO MONDO
L’atteggiamento buonista è visibilmente all’opera nel dibattito sui rapporti tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. In larga parte dell’opinione pubblica occidentale, si sta affermando l’idea che la risoluzione del debito estero accumulato dai paesi poveri possa essere la bacchetta magica capace di innescare lo sviluppo di quei popoli, ritardato dalla zavorra delle passività verso i paesi ricchi. Questo punto di vista permette ai suoi sostenitori di sfoggiare buoni sentimenti, ma omette alcuni elementi basilari. Per comprendere le cause del sottosviluppo di una nazione, bisogna guardare altrove: al regime politico, alle dinamiche demografiche, alle politiche economiche e al grado di apertura dell’economia. Da una simile angolatura, è da condividere in pieno la posizione del governo italiano al vertice G7 di Okinawa, dove Giuliano Amato ha sostenuto che i paesi industrializzati dovrebbero: da una parte, legare l’abolizione del debito alla riduzione delle spese miliari e all’adozione di credibili politiche di sviluppo; e dall’altra, orientare le politiche commerciali verso l’abolizione delle barriere contro i paesi più poveri e le politiche di cooperazione verso la lotta all’Aids e al gap tecnologico. Per i sostenitori della più telegenica campagna contro il debito dei paesi poveri, purtoppo, questi sono soltanto inutili cavilli.
Qualcuno potrebbe eccepire che il buonismo è un peccato veniale, legato più alla retorica che alla sostanza. E che in fin dei conti ha il merito di sensibilizzare le coscienze su problemi reali, come l’enorme divario nei livelli di benessere tra aree del pianeta. Questa obiezione, tuttavia, non considera come il buonismo, nascondendo le cause di un problema, ne complichi la soluzione. La campagna per l’abolizione del debito dei paesi poveri ha una grande capacità di seduzione, anche perché a molti serve per non guardare in faccia le determinanti reali della povertà. La Chiesa cattolica può sottrarsi dall’incolpare le dinamiche demografiche dei paesi in via di sviluppo; la sinistra massimalista e la destra sociale possono sottacere l’assenza di politiche macro e microeconomiche orientate al mercato; gli utopisti antioccidentali possono sottrarsi dall’accusare regimi dittatoriali (di stampo comunista o fascista che siano); gli imprenditori e i lavoratori dei paesi sviluppati possono evitare di denunciare il protezionismo economico dei loro stati, eretto per difendere le loro rendite dal cambiamento economico. Tutto questo ostacola la risoluzione del problema della povertà. Le vittime della patologia manichea sono gli abitanti dei paesi poveri, che non partecipano ai dibattiti promossi dalle tante anime belle a costo zero che affollano gli studi televisivi.
CAPRO ESPIATORIO E PRIMA REPUBBLICA
Passiamo al secondo caso. I metodi sbrigativi e superficiali usati da noi italiani per fare i conti con la cosiddetta Prima Repubblica sono un esempio del rito del capro espiatorio. Già dalla fine degli anni ‘70, il nostro paese ha visto entrare in crisi il suo modello di sviluppo. Vuoi perché è aumentata la pressione di vincoli esterni, vuoi perché sono venuti al pettine i nodi interni del vecchio sistema, sta di fatto che il rapporto tra società e istituzioni si è scollato, anche per l’incapacità della classe politica di incanalare le spinte al cambiamento verso una prospettiva riformista. Le radici e le caratteristiche del patto sociale sovvertito negli anni ’90 sono molteplici. Tra le cause si possono ricordare: il fattore K e l’impossibilità di un’alternanza di governo; la frammentazione della società e gli egoismi corporativi; l’atavica debolezza della burocrazia; i geni del velleitarismo e del massimalismo iscritti nella nostra cultura politica. Tra le caratteristiche meritano di essere isolate: l’invadenza partitica; la ricerca del consenso mediante politiche distributive, che elargiscono benefici concentrati a determinate categorie e diffondono i costi su tutta la collettività, attraverso la spesa in disavanzo e la tassa da inflazione. Non tutti gli aspetti di quel sistema oggi demonizzato come “partitocratrico” erano negativi: non è un caso, infatti, che la Prima Repubblica abbia prodotto un mix di libertà, benessere e diritti sociali quasi miracoloso, se si considera il punto di partenza dell’Italia postbellica. È innegabile, tuttavia, che quel modello di sviluppo era diventato insostenibile, economicamente prima e politicamente poi.
C’era un solo modo per dare uno sbocco riformista alla crisi: ammetterne le responsabilità collettive (della classe politica di governo e di quella d’opposizione, della società civile e di quella incivile, dei sindacati e degli altri interessi organizzati) e trovare una via d’uscita che ne ripartisse i costi economici e politici in maniera equa. Si è preferito, invece, seguire la via della semplificazione populista e dell’epurazione demagogica. La galleria dei capri espiatori offerti in pasto all’opinione pubblica negli anni ’90 è affollata: la corruzione politica, Roma ladrona, il Sud assistenzialista, l’intreccio tra mafia e politica, e via snocciolando. Anche i capri espiatori “individuali” non sono mancati: Craxi, Forlani, ma non solo loro, sia a livello nazionale sia a livello locale. Senza entrare nell’analisi dei fattori che hanno reso possibile questo spettacolare rito di catarsi collettiva, a scapito di uno spezzone della classe dirigente del passato, non può sfuggire come uno dei suoi motori principali sia stato il desiderio di auto-assoluzione e di auto-inganno, presente tra la gente e strumentalizzato da una parte del mondo politico.
Gli effetti perversi di questo fenomeno sono stati due. Il primo è legato alla funzione “fuga dalle responsabilità” del capro espiatorio. Non è un caso che l’Italia, distrutto un patto sociale, si sia mostrata incapace di costruirne un altro in maniera stabile e condivisa, riformando le istituzioni e adottando un pacchetto coerente di interventi sociali ed economici, al di là della logica dell’emergenza. Nessuno nega che sia stato fatto molto e che sia sempre difficile costruire il consenso necessario per rimuovere politiche distributive, ma la crisi di finanza pubblica affrontata dall’Italia negli anni ’90 rappresentava un’ottima occasione per fare meglio. A patto che si fosse trovato il coraggio di spiegare le radici del dissesto, senza illudere gli italiani che sarebbe bastato rimuovere i capi del vecchio regime e sopportare qualche inasprimento fiscale, per rimediare alle ruberie di quell’unico capro espiatorio. In verità, ci fu un tentativo di avviare una prospettiva riformista (al posto di quella pseudorivoluzionaria): il governo Amato. Ma quel tentativo fu presto abortito per l’incapacità di una classe politica al tramonto e l’estremismo di quanti pensavano soltanto a prenderne il posto: si pensi all’annacquamento dei decreti delegati su previdenza, sanità, finanza locale e pubblico impiego; all’insurrezione contro il pacchetto Conso; alle manifestazioni di piazza contro la riforma delle pensioni.
Il secondo effetto perverso è legato alla funzione “parafulmine” del capro espiatorio. La sfiducia nella politica è un fenomeno comune alle società del benessere, ma nell’Italia della Seconda Repubblica ha raggiunto livelli parossistici, poiché molti politici hanno cavalcato la demonizzazione degli avversari, permettendo che la gente vi sfogasse frustrazioni e invidie sociali. È stupefacente come la campagna d’odio verso la classe politica sia stata alimentata da quanti ne venivano momentaneamente risparmiati: politici che si erano incrociati per una vita con i reprobi additati al pubblico disprezzo, da alleati o da avversari, ma sempre alternando le private familiarità con i pubblici duelli. E condividendo la medesima passione per la politica (purtroppo incomprensibile per le generazioni di oggi). Si pensi allo scontro a sinistra tra postcomunisti e socialisti. Ha scritto Ugo Intini con malcelata nostalgia: “I sacerdoti del comunismo sapevano, come noi sapevamo, che eravamo spinti dalla stessa passione politica”. Rimane inspiegabile, per chi sia stato anche soltanto sfiorato da quella passione, come i politici rimasti fuori dal ciclone non abbiano sentito dentro di sé il dovere morale di arginare l’odio, di rimpiazzare la voglia di punire con la voglia di spiegare. Di spiegare che cosa erano la politica e il suo finanziamento nella Prima Repubblica. Di spiegare che non c’è da vergognarsi se per un periodo la politica ha riempito alcuni vuoti anche finanziariamente, integrando gli stipendi inesistenti di amministratori locali disinteressati, o inviando aiuti internazionali ai dissidenti delle dittature di destra o di sinistra (o a quelli di entrambe, come hanno fatto i socialisti). Di spiegare che c’era qualcosa di abominevole, da un punto di vista storico e morale, nei sondaggi che indicavano Craxi e Andreotti in testa ai cattivi del ‘900, davanti ad Hitler e Stalin. Non c’è davvero da meravigliarsi se oggi la politica è avvertita come qualcosa di sporco, se le menti migliori delle nuove generazioni si dirigono altrove.
LA SINISTRA MANICHEA
Un’ultima domanda resta in sospeso: perché la patologia manichea si è manifestata con particolare virulenza proprio in Italia? Una risposta definitiva è difficile da dare, se non scavando a fondo nelle debolezze della nostra cultura collettiva. Non è per accanimento polemico, ma semplicemente perché lo sguardo si fa più severo quando si rivolge alle cose più care, che sono portato a pensare che una delle possibili risposte debba essere cercata a sinistra. E’ la stessa risposta, infatti, che aspettano altre domande sulla storia della sinistra italiana: come mai le componenti riformiste sono sempre state una minoranza, nel più grande partito della sinistra e per lungo tempo anche nel secondo? Perché da noi il ’68 è durato un decennio, invece che un anno come negli altri paesi occidentali? Perché l’utopismo distruttivo di stampo antioccidentale, per dirla con Richard Pipes, ha fatto così tanti proseliti? Porsi simili domande equivale a interrogarsi sul perché la sinistra si sia mostrata del tutto priva di anticorpi, di fronte all’insorgere della patologia manichea. Non si tratta di questioni marginali, che dovrebbero interessare soltanto gli storici, come vorrebbero farci credere i cantori della sinistra “tabula rasa”. Non si può discutere sulla futura identità della sinistra, rifiutandosi in partenza di analizzare i vizi e le virtù che hanno sempre contraddistinto i suoi gruppi dirigenti e la sua base sociale. Piaccia o no, la costruzione di una moderna sinistra riformista passa anche dalla sconfitta di una certa sinistra manichea, convinta della propria superiorità morale e pervasa da sentimenti anti-mercato o anti-politica. Soltanto se mancheranno le forze necessarie per combattere una battaglia del genere, le precedenti considerazioni resteranno mere riflessioni a futura memoria. Ammesso che, in tal caso, per la memoria ci sia ancora un futuro.