Unità

Tutelare gli invisibili – Satnam e la legge che nessuno vuole

Tommaso Nannicini
Lavoro/#diritti#Invisibili#lavoro

Invisibili. Così chiamiamo chi lavora in nero all’interno di certe filiere produttive, senza contratti o con contratti finti, senza sicurezza e spesso senza permesso di soggiorno, molte volte in condizioni di schiavitù abitativa. Li chiamiamo invisibili, ma siamo noi che abbiamo deciso di non guardarli. Di girarci da altre parti. Finché i drammi come quello che ha portato alla morte di Satnam Singh nell’Agro Pontino riempiono le prime pagine dei giornali, salvo poi riconsegnare sfruttati e sfruttatori all’invisibilità.

Mentre litighiamo a Porta a Porta se mettere un salario minimo a nove o dieci euro l’ora, a sessanta chilometri da quegli studi televisivi, ci sono persone che lavorano per pochi euro al giorno, con orari e condizioni disumane. Non è un segreto per nessuno. Le indagini sul campo del sociologo e attivista Marco Omizzolo ce lo rivelano da anni (si veda il suo libro del 2022, “Per motivi di giustizia”). Non è solo un tema di leggi sul lavoro o sull’immigrazione, ma di legalità, di contrasto al crimine. Il dibattito politico si sta concentrando su soluzioni giuste, ma per altri problemi, non per questo.

L’abuso di potere di mercato nella grande distribuzione spinge i prezzi troppo in basso, spingendo molti produttori a pagare salari da fame. Ma non c’entra con lo sfruttamento estremo che sfocia in schiavitù di cui stiamo parlando. Interventi legislativi per ridurre le distorsioni lungo la filiera e un salario minimo sono benvenuti, ma i drammi come quelli dell’Agro Pontino continueranno ad accadere, perché nascono da un substrato forte di illegalità e criminalità, non dalla concorrenza di prezzo.

Lo stesso vale per l’abolizione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, altra scelta giusta, per motivi non solo di giustizia ma di efficienza economica. L’Italia ha bisogno di flussi regolari d’immigrazione per ragioni economiche. Nel nostro Paese, si deve poter entrare recandosi in un’ambasciata, non rischiando la vita in mare. Ma anche una scelta giusta come questa non risolverebbe il problema dello sfruttamento estremo che sfocia in schiavitù: ancorché ridotta, ci sarebbe sempre un’area d’immigrazione illegale sfruttata dalla criminalità. E poi tra gli sfruttati ci sono anche italiani o migranti regolari.

Le scorciatoie non servono. Dobbiamo bonificare dalla criminalità alcune aree e filiere. Per farlo, si devono rafforzare le ispezioni, anche con strumenti tecnologici di cui dotare i nostri ispettori (che in certe zone non hanno auto di servizio, figuriamoci droni). Ma non basta. Occorre dotare gli sfruttati di strumenti per ribellarsi. La ricattabilità e l’assenza di alternative rende difficile denunciare certi crimini. Ribellarsi può voler dire ritrovarsi in mezzo a una strada o con un proiettile in testa. Non a caso il 98 per cento delle indagini sul caporalato parte d’ufficio, senza una denuncia da parte delle vittime.

Il coraggio della denuncia è difficilissimo. Ne sa qualcosa Balbir, bracciante indiano sikh che dopo sei anni di sfruttamento e violenze, costretto a vivere in una roulotte scassata senza acqua e bagno, dividendo il cibo con polli e maiali, grazie all’aiuto di Omizzolo, forze dell’ordine e associazioni, ha trovato la forza di denunciare il suo aguzzino. Quest’anno, dopo sette anni di attesa, il suo “padrone” è stato condannato a cinque anni di reclusione e 12 mila euro di risarcimento. Una sentenza esemplare, ma più unica che rara. Una sentenza arrivata dopo anni durante i quali Balbir ha potuto sopravvivere solo grazie al supporto della rete che l’aveva salvato, trovandogli altri lavori.

Qualche anno fa, ho avuto la fortuna di incontrarlo, accompagnato da Omizzolo, di guardare negli occhi l’orgoglio della libertà che non si arrende, la serenità di un padre che con le rimesse del suo duro lavoro fa studiare tre figli. L’obiettivo di quello e altri incontri era capire se una proposta legislativa contro lo sfruttamento, che stavo per depositare al Senato insieme a Sandro Ruotolo, avrebbe potuto portare qualche beneficio reale. Balbir e altri ci convinsero che sì: qualcosa si poteva cambiare anche per legge. È difficile ricordare senza commozione quegli incontri. Ma tra i tanti ricordi c’è anche la risata amara di uno di quei lavoratori, quando gli chiesi che pensasse della nostra proposta: sarebbe ottima, ci disse, ma lo Stato italiano non farà mai per noi una cosa del genere. Aveva ragione lui.

In che cosa consisteva quel disegno di legge (A.S. 2404 nella XVIII legislatura)? In un programma di protezione simile a quello pensato per i pentiti nei reati di mafia. Schiavitù, caporalato, sfruttamento sono già reati nel nostro ordinamento, ma chi è debole e senza alternative non ha la forza di denunciare i propri aguzzini. Si deve, allora, creare un’alternativa garantita dallo Stato e sostenuta dall’azione di parti sociali e terzo settore. Finanziando un programma che garantisca protezione, status giuridico, alloggio, un reddito forte (il massimo della Naspi) e percorsi di reinserimento lavorativo e sociale a chi denuncia quei crimini. In modo da dare un’alternativa a chi non ne ha. E far sapere a chi intende sfruttarli che quell’alternativa esiste e può essere agita contro di loro.

Non è forse il momento di ritirare fuori quella proposta dagli archivi parlamentari? Per migliorarla, finanziarla e poi andare sul territorio, insieme a sindacati, associazioni e attivisti alla Omizzolo, per far vivere un’opportunità di emancipazione in più. Attivando percorsi concreti di partecipazione e inclusione. Solo così la politica potrà tornare visibile a chi pensa che da troppo tempo abbia smesso di operare per motivi di giustizia.