La Repubblica

Un riformismo empatico e radicale per governare il cambiamento

Tommaso Nannicini, Maurizio Martina
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Ignazio Silone, nella Scuola dei dittatori, scrive che «il colmo dell’arte di governo per i democratici dei paesi in crisi sembra consistere nell’incassare degli schiaffi per non ricevere dei calci, nell’escogitare sempre nuovi compromessi per attenuare i contrasti». È così che gli eredi dei grandi riformatori del Novecento sono gradualmente diventati i tecnocrati del secolo successivo. È successo quando il realismo, giusto antidoto contro demagogia e velleitarismo, si è fatto ideologia. Quando la sinistra ha smarrito le parole: non quelle del chiacchiericcio mediatico, ma quelle che danno identità, illuminano le politiche che fai quando governi e fanno capire per cosa ti batti. Basta schiaffi. Basta timidezze. Diciamo chi siamo. Perché delle due l’una: o torniamo idealisti senza illusioni, o lasceremo il campo agli illusionisti senza ideali che stanno sfasciando il Paese.

La crisi del 2008 segna uno spartiacque. La stagflazione degli anni Settanta marcò il passaggio dal grande consenso keynesiano, durante il quale anche i governi di centrodestra aumentavano la spesa pubblica e allargavano lo stato sociale, a quello neoliberale, quando anche i governi di centrosinistra privatizzavano e mettevano il welfare in cura dimagrante. Quale nuovo consenso emergerà dopo lo spartiacque che stiamo vivendo non è dato sapere. Lo sbocco dipenderà anche da noi. Il compromesso socialdemocratico tra capitalismo e stato sociale appartiene alle grandi invenzioni della storia umana, insieme alla ruota e alla penicillina. Ma va ripensato alla radice.

Negli scorsi decenni, le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte e milioni di persone sono uscite dalla povertà. Ma i contraccolpi sulle disuguaglianze interne ai paesi sviluppati sono stati palpabili e mal governati. La distribuzione del reddito è diventata meno egualitaria, con l’1% che sta in alto sempre più ricco e il 50% che sta in basso sempre più povero. Sono aumentate le disparità nell’istruzione, nelle opportunità sociali, nei benefici a cui si accede in base all’impresa o al territorio in cui si lavora. La classe media si è infilata in una spirale di aspettative decrescenti per un mercato del lavoro sempre più polarizzato tra lavori super pagati e lavoretti. Si è formato un “Quinto Stato” di persone esposte alla precarietà, privo di tutele pubbliche e sindacali, senza un’agenda politica, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale. La crescita del Quinto Stato, non a caso, è stata accompagnata da un aumento dei profitti da monopolio, o scarsa concorrenza, e da una forte riduzione della quota di Pil destinata al fattore lavoro. Se i muri invisibili delle disuguaglianze segregano persone e territori, prima o poi ha la meglio chi i muri vuole costruirli davvero, fermando il cambiamento e dando un effimero senso di protezione.

Per governare il cambiamento, serve un riformismo empatico e radicale. L’empatia ti fa parlare alla vita delle persone. Fa capire che la tua ossessione è non lasciare nessuno da solo di fronte alle ansie che quel cambiamento produce. I primi socialisti, anche quando erano borghesi o intellettuali, non costruivano il consenso leggendo Marx agli operai, ma prendendo bastonate con loro davanti alle fabbriche in sciopero. E promuovendo forme mutualistiche per portare avanti chi era nato indietro. La radicalità della tua agenda politica ti fa interprete dell’urgenza del cambiamento. I convegni non bastano. I vincoli di bilancio sono un dato di fatto, non un orizzonte ideale. Oggi un riformismo radicale non può partire da quattro parole. Emancipazione. Cittadinanza. Ecologia. Europa.

Emancipazione. L’aspirazione delle persone a emanciparsi da ogni costrizione economica o sociale è da sempre il faro della sinistra. Oggi questo vuol dire ripartire dal diritto universale all’istruzione di qualità con un’offerta pari in ogni territorio, dalla dignità del lavoro, dalle opportunità delle donne e dei giovani. Non c’è futuro per un Paese che spende più per interessi sul debito che in istruzione. Che manda tutti in pensione anticipata ma non investe in asili, ricerca, diritto soggettivo alla formazione dalla culla alla tomba. Serve rendere meno costoso il lavoro di qualità, gestire le transizioni da un’occupazione all’altra, creare una rete di welfare 4.0 in cui far confluire in maniera integrata e personalizzata tutte le politiche attive e passive. Per tutti: il cuore del nostro impegno deve ripartire dal rendere universale ciò che è solo per qualcuno. Dall’affermare che i diritti, le tutele, le opportunità o sono anche per l’ultimo della fila o, semplicemente, non sono. Amartya Sen parla di “capacità”, che altro non sono che la trascrizione delle nostre sfere di libertà: quella di perseguire il proprio progetto di vita, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente, di accedere a un’istruzione di qualità, o di vivere in una comunità libera dal crimine. La lotta alle disuguaglianze deve abbracciare tutte queste dimensioni.

Un modello sociale così ha bisogno di risorse. Quando cambia radicalmente il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa. Oggi, in proporzione, paga meno tasse Bill Gates di chi assembla i computer per lui. Il cantante Ed Sheeran versa più soldi al fisco inglese di Starbucks e Amazon. In un’economia sempre più immateriale non è accettabile che anche la base imponibile sia immateriale, perché chi ha potere economico la sposta da qualche altra parte. Serve radicalità. Puoi essere la multinazionale più in voga del momento, ma se trasferisci i profitti in un paradiso fiscale, pensando di tenermi buono con qualche investimento in aree dismesse o qualche mancia all’Agenzia delle entrate, hai sbagliato i conti: se vuoi produrre nel nostro paese devi mettere a nudo i tuoi profitti consolidati e il fatturato ovunque operi, dopodiché la tassazione sarà proporzionale al volume che hai prodotto da noi. In attesa di un accordo multilaterale su una base imponibile comune, l’Europa o i paesi europei che non vogliono aspettare devono fare la prima mossa su questo fronte. Ne va della difesa del nostro modello sociale.

Cittadinanza. La difesa della democrazia passa anche dal rafforzamento del patto di diritti e doveri che sta alla base del nostro vivere comune. E ancora, serve radicalità. Chi nasce e studia in Italia è italiano. Punto. Diritti e doveri valgono per tutti gli italiani, vecchi e nuovi. Punto. L’immigrazione non è un’invasione da bloccare ma una risorsa da gestire. La rinuncia degli Stati a gestire con intelligenza le migrazioni economiche le ha regalate alla criminalità organizzata. In Italia, per lavorare, si deve poter entrare andando in ambasciata non rischiando la vita in mare. E chi arriva sulla base di flussi regolati deve accettare il patto di cittadinanza e inserirsi nella nostra comunità.

Per far vivere la cittadinanza in maniera attiva, servono corpi intermedi solidi, partiti, sindacati, associazioni. Nell’età dei social media, il rapporto tra cittadini e politica rischia un cortocircuito in cui è massima la partecipazione momentanea e incendiaria, ma minima la capacità di incidere sulle scelte di chi governa. Le “masse” della politica del Novecento, per dirla con Byung-Chul Han, sono state rimpiazzate da uno “sciame” digitale senza gravitazione. Ricostruire la cittadinanza vuol dire anche rinnovare i corpi intermedi perché aiutino lo sciame digitale a farsi massa e costruire futuro.

Ecologia. La transizione ecologica è una delle grandi discriminanti del nostro tempo e un riformismo radicale non può che metterla al centro della sua agenda. Presto 9 miliardi di persone condivideranno il nostro pianeta. Entro il 2050, due terzi della popolazione vivranno in grandi città e quella verso le aree urbane è la più grande migrazione in atto. La domanda per cibo, acqua, energia e infrastrutture sta testando i limiti del nostro rapporto con la natura. È possibile crescere economicamente senza far esplodere il pianeta? La risposta è “sì” ma solo se faremo le scelte giuste. Investendo in tecnologia, in soluzioni basate sulla natura, dalla riforestazione alla difesa degli oceani, in un nuovo patto tra governi, imprese e consumatori. L’Italia e il Mediterraneo sono particolarmente esposti al cambiamento climatico in atto. Dobbiamo affrontare questo snodo cogliendone le opportunità per uno sviluppo sostenibile, per un’economia e una società circolari. Serve, di nuovo, radicalità. È cruciale assumere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra entro il 2045, lavorando per il taglio delle emissioni del 60% entro il 2030, partendo dalla produzione e dall’uso dell’energia pulita e dall’efficienza energetica. Si tratta anche di lavorare per la cura del territorio rafforzando la tutela degli ecosistemi, la sicurezza delle infrastrutture, la gestione di beni essenziali come l’acqua e la terra. Cogliendo in pieno l’opportunità di una crescita più sicura, più pulita, più sana, più efficiente.

Europa. Non prendiamoci in giro. Le prossime elezioni saranno una sfida fra tre linee: sfasciare la costruzione europea; conservarla così com’è; oppure – e questo deve essere il nostro orizzonte – costruire un’Europa politica con chi ci sta. Non si tratta di creare un super Stato. E neanche di “cedere sovranità” come troppe volte abbiamo detto nella nostra retorica. Si tratta di costruire una nuova sovranità intorno a temi strategici, che semplicemente non avranno soluzione se non a livello sovranazionale. Con chi ci sta. Lo sappiamo: la storiella della nuova Europa gli elettori l’hanno già sentita. Ci abbiamo fatto tanti convegni. Mai una scelta. Ancora, radicalità. È così che si rinvigorisce la democrazia rappresentativa, proteggendola dagli attacchi di chi la dipinge come un ferro vecchio.

Serve un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera, strumenti di partecipazione permanenti, un budget a gestione politica che completi l’unione monetaria con un’unione fiscale per gestire la domanda aggregata. E serve un’unione sociale: il radicamento della cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Sì, redistribuendo i rischi tra cittadini europei. Su questo i riformisti radicali non possono essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore. Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato la sinistra. C’era chi la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta a livello europeo.

Prima di avviare il congresso, al Forum del Pd di sabato e domenica a Milano, vogliamo discutere delle parole che danno un senso alla nostra passione politica. Delle parole che dobbiamo recuperare per costruire un riformismo radicale. Per dirla con Martha Medeiros, lentamente muore chi non capovolge il tavolo. Capovolgiamolo.

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