La nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), presentata dal governo venerdì scorso, prefigura una manovra economica per il 2016 che si lascia finalmente alle spalle il dibattito, tanto acceso quanto inconcludente, tra fautori della crescita e dell’austerità. E lo fa con una mossa del cavallo che mira ad usare tutti i margini di flessibilità concessi dal quadro europeo senza per questo venir meno all’impegno, verso le future generazioni, di ridurre il debito pubblico. Il rapporto tra debito e PIL tornerà a scendere nel 2016, dopo diversi anni in direzione opposta. Ma il percorso di aggiustamento sarà più lento, rispetto agli impegni anche eccessivamente onerosi che ci eravamo a un certo punto autoimposti.
Grazie al combinato disposto della clausola europea delle riforme, di quella degli investimenti e di quella per eventi eccezionali (leggi: immigrazione), il nostro indebitamento netto potrebbe stabilizzarsi intorno al 2,4 del PIL nel 2016 (rispetto al 2,6 di quest’anno). Certo, subito dopo la presentazione della manovra, la partita si sposterà in Europa, ma, in virtù delle clausole di cui sopra, le richieste dell’Italia appaiono più che ragionevoli, a patto che non s’inceppi il cammino delle riforme (leggi: riforma costituzionale che supera lo scoglio del Senato) e che risulti credibile la nostra promessa di realizzare investimenti aggiuntivi.
La domanda, a questo punto, è un’altra: c’era davvero bisogno di una manovra espansiva e in deficit adesso che l’economia sta dando segnali di ripresa? La risposta è sì, per due motivi. Primo, perché la crescita è ancora fragile e abbiamo bisogno di sostenerla. Secondo, perché ci sono ancora molte riforme in cantiere e, per farle passare economicamente e politicamente, serve dare un po’ di ossigeno a famiglie e imprese, prostrate dalla crisi. E, si badi bene, aumentare i margini di disavanzo non vuol dire indietreggiare rispetto al cammino della spending review. Al contrario, quei margini potranno permettere di spalmarla nel tempo, rendendola credibile e sostenibile. Per esempio, la delega fiscale ha ridotto l’aggio sui contribuenti dall’8 al 6 percento, chiedendo a Equitalia uno sforzo di riorganizzazione e di riduzione dei costi di gestione; sforzo che non si poteva credibilmente imporre in un anno ma che è stato splamato su tre. È solo un esempio fra tanti. Si pensi al superamento di enti non troppo utili (per usare un eufemismo), che richiede sempre un po’ di tempo per assorbire il personale in esubero, prima che i risparmi di spesa si materializzino.
Al netto delle clausole di salvaguardia, le misure cardine della manovra sono note: abolizione delle tasse sulla prima casa, per sempre e per tutti, e misure volte a ridurre la tassazione sugli immobili laddove sono utilizzati come fattori produttivi dalle imprese (leggi: imbullonati e imu agricola). Ma la maggiore flessibilità di bilancio potrebbe permettere di arricchire il menu. Ci sono due P che dovrebbero trovare spazio nella manovra: produttività e povertà. Sulla prima, le possibili leve vanno da misure in favore degli investimenti privati (ammortamenti, ricerca e sviluppo) a interventi che rafforzino la contrattazione decentrata, passando da un rinnovo parziale degli sgravi contributivi che avvii un percorso verso la riduzione strutturale del cuneo contributivo. Sulla povertà, le leve vanno dall’estensione del sostegno alle famiglie povere con minori a carico su tutto il territorio nazionale a un rafforzamento dell’Asdi (il sostegno di ultima istanza per chi ha finito i sussidi di disoccupazione ma persiste in condizioni di bisogno), passando per misure che investano nel capitale umano dei bambini in situazioni di disagio. Tutte misure da soppesare con cura nei rispettivi costi e benefici.
Il Def apre il cammino di una manovra economica espansiva che nelle prossime settimane verrà definita nei suoi dettagli. Il governo e il parlamento hanno ancora molto lavoro da fare, ma la direzione è segnata. Ed è quella giusta.