Il Riformista

Ve lo buco ‘sto Jobs act: luci e ombre di una riforma

Tommaso Nannicini
Lavoro/#jobs act

Un fantasma si aggira tra le stanze della politica italiana: il fantasma del Jobs act. Una riforma fatta in un altro mondo (8 anni fa), così ampia e complessa da essere difficilmente etichettabile (8 decreti legislativi), in larga parte inattuata e in piccola parte superata (da una sentenza della Corte Costituzionale): eppure una riforma di cui tutti sentono il bisogno di parlare. Spesso a vanvera.

La prima mistificazione è che il Jobs act ha prodotto precarietà, contratti insicuri. Al contrario, rispetto alle riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, che s’ispiravano alla cosiddetta “flessibilità al margine” puntando tutto sui contratti temporanei, era la prima volta che si provava a combattere il precariato, abolendo i co.co.pro., contrastando le dimissioni in bianco e stringendo le false partite Iva, con una norma che a Torino i rider hanno usato per avere più diritti (dlgs 81/2015). Per carità, avremmo potuto fare di più, rafforzando le ispezioni contro gli abusi e correggendo il decreto Poletti, che liberalizzava il tempo determinato e col Jobs act non c’entrava niente, ma prevalse la paura di ridurre l’occupazione in una fase difficile per l’economia. Comunque, una cosa è dire che la direzione era giusta anche se non si è fatto abbastanza, altra che si è sbagliato tutto.

Se non fosse tragico per la qualità del dibattito, farebbe sorridere che alcuni economisti criticano il Jobs act citando studi che valutano riforme che col Jobs act non c’entrano un fico secco, perché si basano sulla flessibilità al margine (Treu, Biagi, Gelmini per l’università). Scordandosi di citare i pochi studi che invece guardano proprio al Jobs act, trovando un impatto positivo sulla stabilità dei lavoratori assunti dopo la riforma. Sì: sulla stabilità. E se non fosse tragico per la qualità della politica, farebbe sorridere che chi sostiene l’equazione Jobs act uguale precariato cita come modello la Spagna, un paese con un tasso di precariato doppio del nostro e dove si licenzia senza giusta causa dando al lavoratore poche mensilità, anche dopo i ritocchi del governo Sanchez.

La seconda mistificazione è che il Jobs act ha tagliato il welfare. È il contrario. Prima, si proteggevano le grandi aziende più che i lavoratori. I sussidi di disoccupazione erano ridicoli ed escludevano gran parte del mondo del lavoro, soprattutto giovani, donne e atipici. L’ipertrofia della cassa integrazione aveva spiazzato la creazione di sussidi degni di questo nome e di politiche attive del lavoro.

Il Jobs act ha creato la Naspi, investendo 2,5 miliardi di euro e raggiungendo il 97% dei lavoratori dipendenti, una copertura tra le più alte in Europa. Rispetto a prima, è un sussidio di disoccupazione più generoso, che dura un anno in più (fino a due) e non penalizza i giovani. È stata introdotta la Discoll per collaboratori e giovani ricercatori. Gli apprendisti possono ottenere la cassa. Un milione e mezzo di lavoratori delle piccole imprese, che prima ne erano esclusi, hanno ottenuto integrazioni salariali con i fondi di solidarietà. Ed è stato fatto il reddito di inclusione per combattere la povertà, sebbene con poche risorse. Non è un caso se tutte le riforme del welfare che sono arrivate dopo, dal reddito di cittadinanza alle misure post pandemia, hanno solo rafforzato quell’impianto, andando nella stessa direzione. Certo, le grandi imprese non possono più usare la cassa integrazione gratis e all’infinito per scaricare i costi delle loro scelte sulla collettività. Amen.

Detto questo, non c’è dubbio che qualcosa sia andato storto. Il Jobs act è una riforma Gorbaciov: amata all’estero e odiata in patria. Perché a un certo punto è diventato politicamente prioritario venderla all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci i soldi delle clausole di flessibilità. E gli investitori internazionali a scommettere sull’Italia. Poco male se i sindacati si arrabbiavano. In fondo, l’articolo 18 l’aveva già cambiato Monti, non c’era bisogno di enfatizzare il tema, ma a un certo punto è prevalsa la tendenza a usarlo come un simbolo. E il simbolo si è vendicato. Una riforma pensata per outsider e giovani – a differenza di quelle che avevano salvaguardato insider e garantiti – è stata mal recepita soprattutto dai primi, finendo per essere percepita solo come una riforma pro imprese. È stato un errore. Anche perché alla fine quell’enfasi mal riposta ha impedito di completare le parti più importanti della riforma, dalle politiche del lavoro e della formazione fino al welfare.

Ma l’errore è stato tattico, non filosofico: col cedimento al liberismo non c’entrava niente. Il modello di quella riforma era la socialdemocrazia svedese, non Blair. E quell’errore l’abbiamo fatto tutti insieme: ministri, ministre, parlamentari, dirigenti di partito. Oggi nel Pd c’è una corsa a dire: “io ho votato contro il Jobs act”. Ma gli unici che possono dirlo sono Corradino Mineo, Pippo Civati e Luca Pastorino. Tutti gli altri hanno votato a favore o non si sono presentati. Nel 2016, molti compagni hanno trovato il coraggio del dissenso, aperto e organizzato, quando c’era da far perdere il Partito democratico al referendum. Sul Jobs act si sono limitati a darsi malati.

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