DOC Toscana

Viaggio tra le paure del politico

Tommaso Nannicini
Democrazia/#politica

Massimo D’Alema ha da poco consegnato alle stampe un libro dal titolo: “Oltre la paura”. Un libro che affronta i grandi temi dell’insicurezza e dell’instabilità del mondo dopo l’11 settembre. Un libro che riflette sulle risposte che la politica è chiamata a dare alle inquietudini e alle paure collettive. Esiste un altro filo, tuttavia, che lega la politica alla paura, un filo individuale, intimo se si vuole. Per svelarlo, si deve partire da un semplice (ma spesso trascurato) sillogismo. La politica è un’attività svolta da uomini. Tutti gli uomini, nelle loro azioni, si lasciano guidare anche dalle proprie paure. Ergo: nell’attività politica, le paure degli uomini che la svolgono giocano un qualche ruolo. Proviamo a isolare due paure umane che – una volta calate sull’uomo politico – producono altrettante patologie della politica. La paura del confronto con quanti hanno opinioni o visioni del mondo diverse dalle “nostre”. La paura dell’isolamento quando sosteniamo posizioni eterodosse all’interno del “nostro” gruppo.

Primo punto: la paura del confronto genera il manicheismo. La paura di misurarsi alla pari con posizioni distanti dalle nostre conduce a quella forma di proibizionismo delle idee ravvisabile nel manicheismo: nella tentazione di nascondersi dietro una raffigurazione del mondo che divide nettamente il bene dal male, i buoni dai cattivi. Come si può intuire, si tratta di un’ammissione di sfiducia verso le proprie idee, visto che non si accetta di farle navigare in mare aperto insieme a tutte le altre. Il manicheismo risponde a esigenze psicologiche profonde. E si manifesta attraverso due atteggiamenti distinti: il “buonismo”, vale a dire l’ostentazione verbale di buoni sentimenti (mirante ad autoincludersi nella categoria dei buoni); il “rito del capro espiatorio”, cioè l’individuazione di un responsabile unico dei piccoli o grandi drammi della vita individuale e collettiva (mirante a delimitare con un cordone sanitario la categoria dei cattivi). Il buonismo nasce da un bisogno di autoinganno. Come osservava Kant, l’uomo è un “legno storto”, imperfetto e destinato a rimanere tale, con buona pace di tutte le utopie palingenetiche. L’accettazione di questa semplice verità a livello individuale non è facile, poiché a nessuno piace specchiarsi nelle proprie debolezze: piccole o grandi meschinità, invidie, egoismi. L’ostentazione moralistica di nobili propositi o di un solidarismo di maniera offre l’opportunità di rifarsi il trucco. È l’arma del “judo morale” analizzata sapientemente da Pontevin, alias Milan Kundera (“La lentezza”). È lo stesso Pontevin a citarne un esempio. Il cultore di questa tecnica politica avanza le proprie specchiabili posizioni pubblicamente, dall’alto di un podio, e invita gli altri a seguirlo cogliendoli di sorpresa. “Siete pronti (come sono io) a devolvere il vostro stipendio di marzo a favore dei bambini somali?”. Di fronte a un simile appello, restano solo due vie: “o rifiutare, dichiarando in tal modo la propria infamia di nemici dei bambini, o rispondere: “Sì” in un terribile imbarazzo, che la telecamera dovrà maliziosamente mostrare”.
Il rito del capro espiatorio nasce dal bisogno di individuare un responsabile esterno dei propri fallimenti. Se non vinciamo un concorso, la ragione non risiede nella nostra impreparazione o nella cattiva sorte, ma nel fatto che gli “altri” avevano più raccomandazioni di noi. Se perdiamo le elezioni, non è perché il nostro messaggio è sembrato incoerente e sbiadito agli elettori, ma perché gli “altri” hanno usato le armi della demagogia e del potere mediatico. Raccomandazioni e demagogia esistono davvero, ma il ricorso a queste categorie per spiegare le proprie sconfitte avviene – statisticamente – un po’ troppo di frequente. Come per il buonismo, il capro espiatorio serve a costruire un muro tra noi (i nostri amici, i nostri seguaci, la nostra parte politica) e gli “altri”, eliminando la possibilità di un confronto aperto e contaminante. Un esempio di questa patologia ci è offerto dalla crisi della Prima Repubblica. Già negli anni ’70, l’Italia ha visto entrare in crisi il suo modello di sviluppo, incentrato su politiche distributive a benefici concentrati e costi diffusi. Vuoi perché è aumentata la pressione di vincoli esterni, vuoi perché sono venuti al pettine i nodi interni del vecchio sistema, sta di fatto che il rapporto tra società e istituzioni si è scollato. C’era un solo modo per dare uno sbocco riformista alla crisi: ammetterne le responsabilità collettive e trovare una via d’uscita che ne ripartisse i costi economici e politici in maniera equa. Si è preferito, invece, seguire la via dei capri espiatori: la corruzione politica, Roma ladrona, il Sud assistenzialista, e via snocciolando. Anche i capri espiatori individuali non sono mancati, partendo dall’ingiusto accanimento riservato al solo Bettino Craxi. Senza entrare nell’analisi di questa spettacolare catarsi collettiva, non può sfuggire come uno dei suoi motori principali sia stato il desiderio di autoassoluzione presente nella società e strumentalizzato dal mondo politico.

Secondo punto: la paura dell’isolamento genera il conformismo. L’appartenenza a un gruppo e alla sua missione collettiva è una delle molle dell’impegno politico. La paura di restare soli all’interno del proprio gruppo non può che essere forte. In certi casi, questo timore ha un effetto positivo, perché aiuta a superare le tendenze anarchiche di un’organizzazione rendendone più efficace l’azione. In altri, tuttavia, rappresenta un ostacolo alla libera dialettica delle idee. È il pericolo della dittatura della maggioranza sotto forma di conformismo del pensiero, delineato magistralmente da Toqueville (“La democrazia in America”). “Sotto il governo di uno solo il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva grossolanamente il corpo; (…) ma nelle repubbliche democratiche la tirannide non procede in questo modo: essa non si cura del corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: Voi penserete come me o morrete, ma dice: Voi siete liberi di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resta; ma da questo momento voi siete stranieri fra noi”. La cronaca politica – fatte le debite proporzioni – ci dà un esempio dei pericoli del conformismo: il dibattito sull’art.18 e la difficoltà di sostenere da sinistra una posizione che fuoriesca dalla logica dei “diritti”. Il tentativo del governo di ridisegnare il sistema di relazioni industriali colpendo il mondo del lavoro, e il progetto di affievolire le tutele esistenti senza introdurne di nuove, devono essere contrastati con forza. Ma accanto al merito, esiste un problema di metodo: parlare di attacco ai diritti fondamentali equivale a criminalizzare le parti sociali che per varie ragioni hanno siglato un accordo con il governo; significa ignorare che molte categorie di lavoratori (e molti paesi europei) sono privi di quelli stessi diritti. Dallo scontro frontale tra due presunte idee di civiltà (piuttosto che tra due proposte di riforma del mercato del lavoro) escono sconfitti i riformisti, condannati a sentirsi “stranieri fra noi” all’interno della sinistra.

Intendiamoci: chiunque faccia politica, a partire da chi scrive, è caduto (e cadrà) mille volte nelle comode scorciatoie del manicheismo e del conformismo, per esorcizzare le proprie paure. Ma dobbiamo essere consapevoli che in determinati frangenti queste patologie finiscono per assumere un peso spropositato, inquinando il confronto delle idee nell’arena politica. È plausibile che proprio il venir meno delle grandi fratture ideologiche abbia esasperato una domanda di sicurezza e di appartenenza, a cui il manicheismo e il conformismo danno risposte improprie. (Esattamente come, secondo alcuni, l’intensificarsi dei contatti tra civiltà nell’era della globalizzazione ha aumentato i punti di tensione e la ricerca di senso all’interno d’identità contrapposte). Come ci ricorda il Woody Allen di “Harry a pezzi”: “da giovane avevo meno paura aspettando la rivoluzione, che adesso aspettando Godot”. Certi meccanismi non possano essere rimossi del tutto, ma un briciolo di autoanalisi non guasterebbe. Per ritrovare il coraggio di abbandonare le semplificazioni e i tabù più ingessanti. Per riassaporare fino in fondo la passione per la politica e per il libero confronto delle idee.